DEMOCRAZIA POSSIBILE E NECESSARIA

Bruno Musso – Genova – gennaio ‘24

La rivoluzione elettronica richiede nel ciclo produttivo maggiore preparazione umana e integrazione dei soggetti coinvolti, diventando incompatibile con l’imposizione dall’alto delle dittature. Le democrazie però non hanno nell’impianto istituzionale uno strumento che possa garantire il controllo della collettività nei settori privi di mercato e nelle strategie di sviluppo economico/sociale. Solo la soluzione di questo problema può superare l’attuale instabilità generale.

INDICE         

CAP. I – NEGAZIONISMO DELLA CRISI ISTITUZIONALE

La crisi istituzionale:

Riscaldamento globale

Le motivazioni del negazionismo della crisi istituzionale

Possibilità della democrazia.

Dimensione della crisi

Possibilità reale della democrazia

Primi tentativi democratici

Necessità della democrazia

Dittature

Democrazie.

Equilibrio internazionale

Situazione attuale 

Legittimazione

CAP. II – NECESSITA’ E LOGICA DEI MECCANISMI DEMOCRATICI

Logica della democrazia.

Ipotesi possibili.

Strumenti democratici

Riconoscimento dei diritti

Struttura produttiva.

Ottimizzazione produttiva -L’acquisto

Crescita conoscenza

Crescita della produzione                                  

L’organizzazione aziendale

Precisazioni

Cap. III – SPLENDORE E CRISI DELLE DEMOCRAZIE

Sintesi storica.                  

Dominio borghese nell’Ottocento

Binomio capitalismo/democrazia della seconda metà del ‘900

La rottura. Limiti del mercato

Ambito d’impiego.

Soluzioni adottate.

Limiti d’efficienza.

Un esempio – le Autostrade del Mare

Funzioni democratiche.

CAP. IV – LA ROTTURA DEL MECCANISMO ISTITUZIONALE

Preconcetti culturali

Teoria del plus valore.

Le contradizioni della sinistra

Equivoco conoscitivo

Conseguenze economiche.

Caso Genova

Moltiplicatori di disfunzioni.

Terzo mondo.

CAP. V – SUPERARE LO STALLO

Logiche alternative.

Domanda collettiva

Caratteristica della domanda collettiva

Logica organizzativa della domanda collettiva

IV potere

Differenza situazione attuale

Aspetto culturale

Necessità del IV Potere e reddito di cittadinanza

La nuova democrazia del IV potere

Possibile futuro impianto istituzionale

Strategia realizzativa e conclusioni provvisorie                

CAP. I – NEGAZIONISMO DELLA CRISI ISTITUZIONALE                                                    

La crisi istituzionale: La crisi della democrazia è indiscussa, non c’è articolo o dibattito che non lo rilevi e tutti sottolineano l’incapacità crescente dei regimi democratici di fronteggiare le grandi necessità economico/sociali della società moderna. Alcuni, anche di sinistra, pensano che solo l’uomo forte può garantire l’ordine e la coerenza comportamentale perché la democrazia avrebbe fatto il suo tempo e non sarebbe più compatibile con la complessità della società moderna.

La maggioranza comunque attribuisce questi fenomeni alla caratteristica degli uomini coinvolti, alla loro incapacità di fronteggiare i difficili problemi che pone il sistema economico/sociale; quasi nessuno ipotizza che le disfunzioni non dipendano dall’incapacità umana, conseguenza e non causa della crisi, ma dal meccanismo istituzionale incapace di utilizzare le risorse disponibili, di selezionare e premiare uomini e scelte migliori.

La ricerca infatti di possibili carenze istituzionali, causa delle disfunzioni denunciate incontra un generale rifiuto e tutti preferiscono fermarsi alla quotidianità delle scelte sbagliate. Un analogo assurdo comportamento si è verificato con riferimento al riscaldamento globale di fronte al quale per lungo tempo è prevalsa la logica di negarne l’evidenza.

Riscaldamento globale. Anche in questo settore i primi sintomi hanno incominciato a manifestarsi circa mezzo secolo fa, producendo inizialmente conseguenze marginali, cresciute progressivamente nel tempo, che hanno imposto alla coscienza collettiva un’evoluzione, realizzatasi attraverso quattro fasi successive.

I fase (negazionismo) – Le iniziali sparute denunce sono rimaste inascoltate perché contrastavano con cultura, abitudini e interessi fortemente consolidati dell’organizzazione esistente. I singoli fenomeni sono stati rilevati come fatti casuali connessi a situazioni specifiche; Trump continuava a negare l’esistenza del fenomeno. 

II fase – I livelli pericolosi raggiunti dal cambiamento climatico hanno imposto di prenderne atto, misurando l’ampiezza e le tendenze evolutive e quasi tutti progressivamente hanno concordato sulle valutazioni fatte.

III fase – Si è aperta così la possibilità di andare oltre e cercarne le cause; dopo anni di dibattito la tesi prevalente ha attribuito la disfunzione climatica al nostro dissennato consumo energetico; è stato così possibile valutare la dimensione del fenomeno, le tendenze e le drammatiche conseguenze di un mancato intervento.

IV fase – E’ iniziata la ricerca di possibili soluzioni che hanno coinvolto l’intero pianeta, valutando gli interessi in conflitto, le compensazioni e le conseguenze economiche delle soluzioni che verranno adottate.

Solo a questo punto è stato possibile intravvedere una strada non facile, né certa, ma necessaria. Anche questo fenomeno è comunque conseguenza della generale incapacità della struttura pubblica di assolvere il proprio compito e difficilmente le strategie ipotizzate saranno vincenti in carenza di meccanismi democratici funzionanti.

Le motivazioni del negazionismo della crisi istituzionale. La crisi della democrazia è ancora ferma all’iniziale fase negazionista che nega il fenomeno e attribuisce le disfunzioni all’errato comportamento degli uomini coinvolti, precludendosi così la possibilità di studiarne le cause e cercare possibili soluzioni. Se il fenomeno fosse solo italiano potremmo farlo risalire a nostri problemi specifici; riguarda invece tutte le democrazie mondiali e rappresenta un problema generale dell’odierno impianto istituzionale. Coinvolge quindi l’attuale logica democratica basata sulla tripartizione dei poteri teorizzata a metà del ‘700 dall’Illuminismo francese per legittimare e consolidare la nascente classe borghese.

I motivi di questo generale rifiuto al cambiamento sono molteplici, si integrano e sostengono a vicenda; ne esamineremo singolarmente alcuni, evidenziando le cause che li determinano.

Primo – condizionamento culturale: pensiamo che i ghiacciai seguono leggi fisiche vincolanti mentre l’uomo, disponendo del libero arbitrio, ha un comportamento non obbligato e prevedibile. Il discorso è falsante a livello economico/sociale perché contradetto da due leggi della statistica: la prima è “la probabilità non ha memoria” quindi se si gettono i dadi 10 volte ed è sempre venuto pari, non esiste nessuna maggiore probabilità che la prossima volta sia dispari. La seconda è “per i grandi numeri la frequenza è uguale alla probabilità” cioè se getto i dadi 1.000 volte certamente il 50% delle volte viene pari e 50% dispari.

Il comportamento economico/sociale riguarda grandi numeri per cui la libertà del singolo individuo, non contrasta con i comportamenti obbligati della collettività, come conferma l’esame di qualsiasi momento storico; anche oggi i comportamenti dei singoli attori si conformano alle necessità della struttura in cui operano. Le dittature sono coerenti con le loro logiche condizionanti, mentre le democrazie scontano le contraddizioni del proprio impianto istituzionale.

Secondo – Ogni cambiamento impone di rinunciare oggi a privilegi e prassi consolidate, in nome di un vantaggio futuro. Il vantaggio, anche se consistente, riguarda la collettività e difficilmente i soggetti penalizzati; i risparmi energetici ad esempio aiutano tutti ma sono a carico di pochi produttori. Il cambiamento è quindi quasi sempre ostacolato anche se, stando alle previsioni del caso specifico citato, i produttori coinvolti potrebbero avere un buon ritorno in termini economici/occupazionali.

Terzo Facile capire la difficoltà a riesaminare la coerenza del nostro impianto istituzionale che implica necessariamente la modifica sostanziale della Costituzione. Le certezze alternative sono poche mentre la difesa dell’esistente è fortissima. Parliamo di elementi che possono rappresentare quasi dogmi di fede, come il Vangelo e quindi poco discutibili. Inoltre la nostra Costituzione, nata dalla Resistenza, è culturalmente e socialmente una delle più avanzate, portatrice di valori fondamentali.

Nessuno vuole però annullare i diritti sanciti dalla Costituzione, che vorremmo anzi aumentare; si considera solo necessario integrare il molto che c’è, con il poco che manca in modo che i diritti sanciti possano essere reali e non solo formali. Infatti i diritti sono solo propedeutici alla giustizia sociale e rimangono un semplice sogno utopico se parallelamente non esiste un sistema produttivo in grado di renderli reali garantendo i relativi prodotti. Per il breve periodo della II parte del ‘900 tale funzione è stata svolta dal mercato capitalistico, ma a fine secolo il meccanismo è risultato inadeguato, rendendo necessaria una maggiore partecipazione economica della collettività sulla struttura pubblica. La mancanza degli strumenti per garantire questo nuovo compito, rischia di compromettere i risultati raggiunti e i diritti che caratterizzano l’impianto democratico.

Irrinunciabile è infatti il diritto gratuito a istruzione e sanità, ma perde di contenuto se nella realtà non è ottenibile; discorsi analoghi valgono per il lavoro e altri diritti previsti dalla Costituzione. L’evoluzione tecnologica realizzabile dovrebbe aumentare e non ridurre i diritti acquisiti e invece la crisi attuale sta riducendoli; questa evidente contradizione evidenzia l’inadeguatezza istituzionale e alimenta i legittimi comportamenti populistici.  

Quarto – Le modifiche riguardano la struttura politica, settore oggi poco interessato a raggiungere i nobili obbiettivi dichiarati, ma più propenso a mantenere e far crescere potere e privilegi. Difficile distinguere fra le ricorrenti richieste di cambiamenti istituzionali finalizzati ad aumentare il potere dei singoli gruppi e quelle che invece potrebbero rappresentare una svolta effettiva. Inoltre il cambiamento dovrebbe coinvolgere i privilegi della maggioranza della popolazione, forse del 70%, quindi difficile da imporre. I grandi cambiamenti però sono determinati dalle necessità collettive e non dalle scelte volontarie.

Quinto – Si aggiungono alcuni problemi legati alla peculiarità del problema: le democrazie dell’Ottocento, specie in Italia, erano oligarchie borghesi dove la borghesia, l’unica con diritto di voto, disponeva sia del potere politico che di quello economico. Il suo comportamento non è stato dei più nobili e, pur trascurando la politica coloniale, ha difeso solo i propri interessi, festeggiando a fine secolo la belle époque mentre il proletariato senza diritti ha subito la più disperata miseria, mitigata solo dall’emigrazione (allora eravamo noi i migranti). Il suffragio universale, in Italia ottenuto nel ’11, e cancellato dalle dittature e dalla guerra, nel dopoguerra è diventato reale (con anche l’inserimento delle donne), garantendo un forte sviluppo economico/sociale e la legittima convinzione che il problema era risolto e non era possibile andare oltre.

Il suffragio universale oggi operante – uno vale uno – e le elezioni libere sembrano infatti corrispondere al più elevato livello di democrazia, per cui l’unico possibile miglioramento potrebbe derivare da maggiore impegno, responsabilità e cultura degli uomini coinvolti. Se questo non basta, come non basta, significa che gli uomini non sanno o non vogliono autogestirsi; conviene quindi lasciare tutto in un limbo indefinito, per evitare che nasca, come sta avvenendo, la richiesta dell’uomo forte capace di superare la paralisi operativa. L’equivoco nasce dalla mancata distinzione fra potere reale e solo formale.

Sesto – Vedremo in seguito quali strumenti sono necessari per fornire alla collettività poteri reali e non solo formali; è utile però ricordare un fenomeno analogo relativo al peso di un potere collettivo che era bellissimo però solo formale e non reale. L’incapacità di distinguere fra potere reale e formale ha infatti condizionato per più di un secolo gli intellettuali di sinistra di tutto il mondo. Marx aveva (giustamente) teorizzato la lotta di classe per garantire i diritti del proletariato e aveva identificato (meno giustamente) lo sfruttamento nella dialettica padrone/lavoratore che permetteva al padrone di “rubare” il plus valore al lavoratore. La proprietà pubblica dei i mezzi di produzione doveva quindi permettere di eliminare il padrone, far cadere lo sfruttamento e garantire la nascita di una società ugualitaria. In aggiunta la rivoluzione russa ha costituito i Soviet, che costituivano strutture produttive autogestite dagli stessi operai, che integrandosi e agglomerandosi, diventavano la struttura portante dell’organizzazione pubblica.

Sembrava tutto risolto; non è stato così, in seguito cercheremo, con il senno di poi, di capirne il perché; si è impiegato però quasi un secolo per riconoscere che non potevano funzionare e molti ancora oggi ne rifiutano la spiegazione. Anche allora era difficile superare la legittima convinzione che nessuna alternativa potesse essere socialmente migliore: tutto era pubblico senza il padrone sfruttatore e i lavoratori si autogestivano: doveva necessariamente essere “il paradiso dei lavoratori”. Sono stati necessari lunghi tempi e molti drammi personali per capire i condizionamenti dei meccanismi economici che vanificavano tali poteri e rendevano necessario sostituirli con la burocrazia di partito, gestita centralmente da una feroce dittatura.

Settimo. Oggi dobbiamo quindi evitare analoga trappola culturale che considera il suffragio universale come il massimo livello democratico possibile e pone l’inaccettabile alternativa, tra mantenere tutto invariato difendendo l’indifendibile o eliminare tutto perdendo anche diritti e libertà che rappresentano il grande patrimonio della democrazia. L’attuale impianto istituzionale è infatti indispensabile e garantisce un potere reale per quanto riguarda diritti e libertà dei votanti, ma deve essere integrato perché privo degli strumenti necessari alla gestione economica pubblica e all’equità distributiva, oggi determinanti ma non previsti inizialmente perché contrari agli interessi della borghesia al potere.

Possibilità della democrazia. Preso atto delle inevitabili difficoltà a cambiare e delle opposizioni che inevitabilmente si incontreranno, viene naturale porsi alcune domande preliminari: la prima è capire se realmente la crisi esiste e non assistiamo invece al solito lamentarsi del presente – mala tempora currunt – rimpiangendo un passato migliore che non è mai esistito. La seconda è se la democrazia è un sogno utopico impossibile da realizzare, o se è invece l’ultimo salto tecnologico, legato all’elettronica che ha cambiato le regole del gioco, lo ha reso un obbiettivo reale non solo possibile ma anche necessario. Rispondiamo alle due domande.

Dimensione della crisi: la crisi è maggiore di quella che appare; infatti normalmente prendiamo in considerazione solo la punta dell’iceberg perché per valutare peggioramenti o miglioramenti, esaminiamo la situazione attuale e la confrontiamo con quella precedente, mentre dovremmo confrontare il mondo attuale con quello possibile e necessario; solo così riusciamo a cogliere l’immenso spreco di risorse dovuto all’incapacità di utilizzare le nuove possibilità oggi diventate reali e non più utopiche.

Certamente non è facile capire il mondo possibile su base scientifica senza affidarsi alla fantasia salvifica; però ci aiuta l’esame della precedente rivoluzione industriale che ci ha portato dal Medio Evo all’età moderna. Limitiamo l’analisi al meccanismo produttivo, nostro specifico punto di interesse, pur coscienti che esiste una forte interdipendenza cultura–produzione, dove la logica produttiva è l’elemento trainante dell’evoluzione culturale e viceversa.

La rivoluzione industriale, basata sull’introduzione della meccanizzazione e del motore nel ciclo produttivo in sostituzione della fatica umana, in cinque secoli ha permesso il passaggio dal Medio Evo all’età moderna; solo nell’ultimo secolo in Europa ed in particolare in Italia sono aumentati di 10 volte (1.000%) diritti, libertà, benessere collettivo ed equità distributiva. Un proletario italiano all’inizio del ‘900 avrebbe considerato un sogno utopico le condizioni del suo omologo a fine secolo.

La rivoluzione elettronica, sviluppatasi in 50 anni, ha inserito nel ciclo produttivo il computer in sostituzione ed aiuto dell’intelligenza umana e questo avrebbe dovuto garantire un analogo, se non superiore, miglioramento. Non è successo: nello stesso periodo infatti nelle democrazie avanzate l’aumento del Pil, anche se parziale misura del benessere, è stato trascurabile (in Italia nullo). Questa mancata crescita evidenzia la reale dimensione della crisi, rompe gli equilibri esistenti e permette di capire che qualcosa si è rotto nel nostro meccanismo politico/economico, impedendo il possibile e necessario sviluppo economico/sociale.

Possibilità reale della democrazia. L’idea della democrazia nasce 2.500 anni fa in Grecia perché considerare l’uomo il centro della società, implica il suo diritto a partecipare alle scelte che ne determinano il destino. Nasce così l’istanza di un potere legittimato dal basso, al servizio dell’intera collettività, dove tutti possono partecipare alla gestione della comunità. Istanza nobile e corretta che nei secoli è rimasta però una semplice utopia, priva di realizzazioni pratiche. L’entusiasmo iniziale dei Greci non è durato molto e nei secoli successivi poche sono stati i tentativi pratici, mai pienamente realizzati, quali l’organizzazione romana, i comuni italiani, le repubbliche marinare, fino ad arrivare alla “democrazia” dell’Ottocento.

Difficile chiamare democrazie queste varie soluzioni; erano infatti oligarchie governate da una minoranza il cui potere era legittimato da un’investitura dal basso invece che dall’alto. Erano normalmente società meno condizionate dalla produzione agricola, con la conseguente logica feudale, ed erano comunque gestite da rigide minoranze anche se un po’ allargate rispetto alle precedenti società agricolo/feudali; si è passati forse da meno dell’1% a circa il 3% della popolazione.

Gli esclusi dei vari momenti storici: il contadino medievale e il proletario dell’Ottocento, venivano considerati strumenti di lavoro senza diritti; non partecipavano alla gestione del sistema economico/sociale e quindi non disponevano di un reale potere d’acquisto ma solo del minimo necessario per la sopravvivenza fisica.

D’altronde la produzione (specie la guerra) richiedeva una minoranza pensante e una maggioranza impiegata in lavori pesanti, estenuanti e ripetitivi basati sulla forza e non sull’intelligenza; il divario di ruoli difficilmente permetteva un’organizzazione democratica. L’imposizione di una minoranza al potere era anche consona, per non dire necessaria, allo sviluppo della società; Aristotele non avrebbe potuto passeggiare amabilmente con Platone sotto i portici dell’agorà ponendo le basi della nostra cultura se non avesse avuto schiavi, marinai, artigiani e contadini che lavoravano per lui, gli garantivano l’appagamento delle sue necessità pratiche e il tempo per pensare. 

Primi tentativi democratici. Il potere imposto dall’alto con la forza, finché è possibile, è più semplice e quindi prevale fino a quando non esistono le condizioni che impongono e rendono necessaria una diversa organizzazione, cioè una certa omogeneità nella collettività e una sua forza che possa imporre le proprie necessità; in mancanza prevale la deriva autoritaria, come è stato per i Comuni italiani trasformatisi in signorie.

I primi tentativi di democrazia si manifestano infatti solo nella seconda parte del’900 perché lo sviluppo tecnologico, eliminando buona parte del lavoro faticoso e ripetitivo, aveva esteso la collettività dotata della conoscenza necessaria a gestire le nuove tecnologie e rivendicare un diverso ruolo sociale. La lotta di classe ha minato il potere dell’oligarchia borghese e, rivendicando i diritti del proletariato, ha ottenuto a inizio’900 (in Italia nel ’11) il suffragio universale, che dava a tutti una parità di diritti nella costruzione della struttura pubblica.

L’ottenimento del suffragio universale non significava la nascita della nuova società auspicata ma il necessario primo passo in questa direzione, soprattutto rompeva per la prima volta l’elemento che per millenni aveva permesso una forte sperequazione economico/sociale. Le dittature e la guerra sono state le reazioni per impedire il cambiamento e hanno creato nella I metà del ‘900, una situazione analoga all’attuale; le democrazie sembravano perdenti e le dittature vincenti: l’economia stagnava, non garantiva il benessere, mentre esplodeva la disoccupazione con una situazione intollerabile di miseria. 

Il meccanismo che determinava il generale squilibrio derivava invece proprio, come ora, dall’opposizione al cambiamento, infatti l’evoluzione tecnologica (il trattore, il telaio meccanico, ecc.), prevalente già nell’Ottocento, portava un’automatica crescita della produttività, ma la produzione non cresceva perché avrebbe richiesto un aumento della domanda globale, realizzabile solo con il riconoscimento dei diritti del proletariato e un conseguente aumento dei salari. 

Era esattamente quello che la borghesia cercava di impedire perché significava il “potere d’acquisto” del proletariato e la caduta della “democrazia borghese” già contradditoria a livello del solo nome. Solo dopo la guerra nella II metà del ‘900 è diventato possibile rendere reale il suffragio universale e incominciare a costruire la società post borghese e, con i lunghi tempi della storia, una prima “democrazia” reale. Il conseguente utilizzo delle immense risorse già allora disponibili ma fino allora non utilizzate, ha garantito alle democrazie avanzate sviluppo produttivo, benessere economico/sociale diffuso e le ha rese ovunque vincenti.

Necessità della democrazia. Verso fine secolo la rivoluzione tecnologica avrebbe dovuto permettere un drastico aumento di produzione, libertà, diritti e benessere collettivo; nulla di tutto ciò è avvenuto, anzi si sono ridotti diritti e benessere evidenziando che qualcosa nel sistema economico/sociale non ha funzionato e ne bloccava il meccanismo. Al solito si è ipotizzato che la maggiore complessità del sistema produttivo rendesse impossibile a una collettività priva di adeguata conoscenza, la partecipazione alla gestione produttiva; rispuntava così la necessità dell’uomo forte.

La situazione reale è invece l’opposto; l’evoluzione tecnologica ha progressivamente ridotto, fino quasi ad annullarlo, il lavoro di pura esecuzione, imposto dall’alto su base gerarchica e ha richiesto una maggiore intelligenza e partecipazione; il salto tecnologico dell’ultimo mezzo secolo ha accentuato l’interdipendenza conoscenza-produzione con la produzione che nasce dalla conoscenza, a sua volta figlia della produzione. Questo porta a catena una serie di conseguenze, fra loro interdipendenti che stravolgono le attuali regole del gioco e impongono una revisione generale.

La conoscenza diffusa alimenta lo sviluppo dei paesi avanzati e da essi viene prodotta grazie all’interdipendenza conoscenza-produzione; è richiesta una maggiore partecipazione della collettività nella struttura pubblica che è incompatibile con la dittatura perché presuppone la libertà. L’impiego del soggetto sottopagato, schiavo, contadino, proletario, non rappresenta più un vantaggio ma bensì un costo economico perché ha una bassa produttività, mentre l’imposizione gerarchica richiede una violenza crescente e intollerabile.

Il prevalere delle dittature non evidenzia quindi la crisi della democrazia ma solo della logica del nostro impianto istituzionale, pensato tre secoli fa dall’Illuminismo francese in un paese agricolo per legittimare e consolidare la nascente borghesia. È facile pensare che non sia più idoneo a gestire l’economia di una società post borghese e post industriale, che certamente richiede uno strumento partecipativo più avanzato, ieri impossibile ed oggi possibile e necessario. La maggiore pericolosità della crisi si manifesta per nella mancata tenuta delle strutture pubbliche sia democratiche che dittatoriali, perché entrambe non reggono più e fanno saltare qualsiasi equilibrio internazionali. Entrambe sono infatti sempre meno compatibile a livello di diritti e produzione

Dittature. Diritti – L’elettronica ha fornito uno strumento di conoscenza e comunicazione collettiva, permettendo di prendere coscienza delle diverse realtà economico/sociali e rivendicare condizioni precedentemente ignorate; si sviluppa e cresce inoltre la mobilità collettiva, mentre vengono costruite armi piccole ma potenti. Cresce così la difficoltà a controllare e dominare la popolazione ed è necessaria una violenza crescente per garantire il potere,.

Produzione – la riduzione, almeno potenziale del lavoro pesante e imposto, sostituito da quello qualificato richiede intelligenza, casualità, capacità di coordinamento e collaborazione; doti che nascono dalla libertà e non sono compatibili con la violenta imposizione delle dittature. Le dittature hanno mantenuto una certa efficienza nei grandi investimenti, anche militari, di competenza della mano pubblica, ma sono rimaste tagliate fuori da tutta l’evoluzione capillare, vera forza dello sviluppo tecnologico delle democrazie. Sono bastate le armi dismesse delle democrazie per permettere all’Ucraina di fronteggiare la Russia.

Democrazie. Diritti – le elezioni a suffragio universale hanno permesso alla maggioranza di determinare i diritti della collettività, garantendo un livello di parità accettabile. Produzione – il capitalismo, attraverso il mercato, ha spinto l’ottimizzazione produttiva facendo crescere conoscenza e risorse, ed ha cosi garantito il potere d’acquisto necessario a rendere reali i diritti acquisiti. L’integrazione pubblico (diritti), privato (produzione), ha garantito, nella seconda metà del ‘900, gli alti livelli di libertà, diritti ed equità distributiva che hanno reso le democrazie vincenti.

L’integrazione virtuosa si è rotta verso la fine del secolo e si è rilevato che le strutture pubbliche dei sistemi democratici mancavano degli strumenti necessari a gestire i settori non controllati dal mercato e i grandi problemi economico/sociali imposti dal salto tecnologico quali riscaldamento globale, approvvigionamento energetico, dissesto ecologico, povertà e violenza della maggioranza della società mondiale. Questa incapacità ha messo in crisi l’intera struttura pubblica che non è riuscita più a gestire i propri compiti tradizionali ed ha impedito la crescita di risorse, conoscenza e benessere collettivo, ed hanno selezionato e incentivato gli uomini e le soluzioni peggiori, alimentando contestazione e populismo. 

Equilibrio internazionale. Lo scontro dittature e democrazie, testa senza corpo la prima, corpo senza testa la seconda, entrambe condizionate da uno squilibrio strutturale, ha creato una situazione di stallo in cui nessuna parte può prevalere. Inoltre il salto tecnologico ha condizionato i rapporti pubblico-collettività, sia all’interno dei singoli Stati che fra Stati e popolazione di diversi Stati.  La visibilità delle varie realtà mondiali ha evidenziato le grandi diseguaglianze, prima ignorate e quindi tollerate, oggi inaccettabili e fonti di una generale protesta.

Le zone economicamente meno sviluppate sono state anche quelle maggiormente condizionate dal salto tecnologico/produttivo che ha coinvolto l’intero pianeta; si è rotto il fragile ordine economico/sociale preesistente, senza che per la crisi di dittature e democrazie si potesse identificare un possibile modello alternativo. Evoluzione tecnologica e squilibri climatici, hanno così fatto esplodere la disoccupazione, lasciando ai giovani come principale sbocco lavorativo l’adesione alle milizie mercenari, disponibile ad intervenire in qualsiasi conflitto latente e farlo esplodere.

Le milizie, spesso legate a fanatismi religiosi, dispongono di un’autonomia crescente: inserendosi in un conflitto latente, ne appoggiano una parte, inglobando alcuni sui combattenti; se vincono diventano i gestori del territorio conteso. Questo è successo in maniera più appariscente in Afganistan, ed è stato tentato dall’Isis in Siria e oggi da Hamas in Israele. La caratteristica e potenza delle armi accentua il fenomeno e democrazie e dittature resistono con fatica ma solo dove già esistono.

Le democrazie tendono verso una deriva dittatoriale. Anche le dittature non tengono e se cadono non subentra un’altra dittatura ma lo sfascio dell’unità pubblica, che origina la “guerra per bande” cioè gruppi armati che si unificano e combattono per abbattere il precedente potere e prevalere. Così è successo in Libia con la caduta di Gheddafi e in parte succede in Israele e in mille altri Paesi meno presenti nella narrazione internazionale. Abbiamo ricreato la conflittualità medievale ma utizzando le potenti armi moderne. Per neutralizzare questa polveriera la sola possibilità consiste nell’adeguare l’impianto istituzionale delle democrazie e liberare le immense risorse disponibili, prima che un fatto marginale e forse casuale, possa originarne l’esplosione.

Situazione attuale: in sintesi abbiamo sottolineato che la crisi è reale e superiore alla nostra comune percezione; che la democrazia è non solo possibile ma anche necessaria, perché per la prima volto sono cadute anche tutte le alternative forme di organizzazione pubblica che hanno caratterizzato la società umana negli ultimi millenni. Un primo embrione di democrazia ha operato per la prima volta, limitatamente alle società avanzate, nella II metà del ‘900, garantendo insperati livelli di diritti, libertà e benessere collettivo che hanno reso le democrazie vincenti. Il salto tecnologico dell’ultimo mezzo secolo, condizionato dall’elettronica, costituisce una rottura netta con il passato e apre a livello mondiale l’alternativa tra un futuro meraviglioso o un terribile dramma. Nel presente studio cercheremo di evidenziare gli elementi che possono permettere il cambiamento e perché l’evoluzione virtuosa della democrazia si è interrotta verso la fine del secolo scorso, rimettendo tutto in discussione.

Legittimazione: Vorrei preventivamente giustificare la mia presunzione di invadere il campo di economisti, politici e sociologi senza disporre dei necessari titoli legittimanti; però di fronte alla forte evoluzione degli ultimi anni e all’elevata interdipendenza fra settori di competenza diversa, forse un imprenditore, con minore competenza nei singoli campi, ma punto di sintesi del processo produttivo può cogliere con più facilità i condizionamenti e le interdipendenze fra i diversi campi del processo economico/politico.

La mia conoscenza non si è infatti consolidata nell’Università né nell’anno di specializzazione alla London School of Economics, ma negli oltre cinquant’anni di master spesi nell’ “Università del porto di Genova” che non mi hanno fatto ottenere la libera docenza, ma mi hanno permesso di sperimentare e patire, con 50 anni di anticipo, l’incapacità della struttura pubblica di assolvere al proprio ruolo, la sua funzione oggettivamente di destra e le molte disfunzioni che si sono ingigantite nell’attuale meccanismo economico/sociale.

Inoltre l’argomento trattato riguarda le disfunzioni politiche, campo nel quale conta non tanto ciò che si elabora nelle segrete stanze del sapere, ma ciò che condiziona l’opinione pubblica. L’esame quindi fatto da un non addetto ai lavori, con un linguaggio un po’ approssimativo ma più comprensibile, potrebbe aiutare a meglio capire i preconcetti che condizionano la nostra conoscenza collettiva e determinano le scelte politiche.             

CAP. II – NECESSITA’ E LOGICA DEI MECCANISMI DEMOCRATICI                    

Logica della democrazia. La democrazia costituisce la sintesi della cultura europea e affonda le sue radici nel mondo greco; riconoscere il valore dell’uomo in quanto tale, implica infatti il suo diritto a condizionare la propria vita, il proprio futuro, ed essere inserito nella collettività che gestisce collegialmente tutto ciò che è comune. Garantire però a tutti i membri della collettività una dignitosa sopravvivenza, richiede l’esistenza di un meccanismo democratico per imporre che le necessità della collettività vengano prioritariamente soddisfatte.

Democrazia significa quindi che l’intera capacità produttiva non sia più al servizio di una minoranza, singoli o gruppi, ma dell’intera collettività, unica quindi titolata a decidere le scelte economico/sociali che la condizionano. Questa semplice dichiarazione è sufficiente per evidenziare le difficoltà oggettive per raggiungere l’obbiettivo e le conseguenze comportamentale che ne derivano.

La prima conseguenza, potremmo dire la cartina tornasole del livello democratico raggiunto, è l’equità distributiva; infatti se le decisioni vengono prese, con un idoneo meccanismo, dall’intera collettività tuteleranno in modo particolare le fasce più deboli che costituiscono la maggioranza in quanto base della piramide sociale. Facile capire che democrazia e sinistra sono di fatto sinonimi, purché i poteri riconosciuti alla collettività siano reali e non solo formali come è successo in quasi tutte le fallite rivoluzioni del ‘900; in esse infatti delle minoranze giunte al potere in nome del popolo, sono state legittimate a operare senza controllo in totale arbitrio.

La distinzione fra potere reale e formale è il nucleo di qualsiasi discorso democratico e rappresenta un problema non facile da risolvere perché richiede di superare preventivamente molti preconcetti derivati dalla situazione attuale; incominciamo quindi, per evitare equivoci, a chiarire alcuni punti. La collettività per soddisfare le proprie necessità deve disporre dei beni e servizi necessari; questi quindi devono essere prodotti adeguandosi alle sue richieste.

Per produzione non si intende però, come comunemente pensiamo, gli oggetti di comune consumo quali telefonini, televisori e altro ma ogni bene o servizio di cui disponiamo o necessitiamo. Tutto quindi è produzione e coinvolge, anche e principalmente, l’attività della mano pubblica cioè Governo, Parlamento e Magistratura. Si allarga a tutte le necessità che in qualche maniera vengono soddisfatte; anche la disponibilità di una spiaggia libera è produzione perché richiede una serie di interventi fra loro coordinati senza dei quali la disponibilità non è reale.

Mancata produzione, o inefficienza produttiva, sono la causa di tutte le disfunzioni che quotidianamente subiamo, quali sanità, scuola, ingorghi stradali, disfunzioni urbanistiche, squilibrio economico, disastro ecologico, riscaldamento globale, guerre attive o latenti, coinvolgendo tutti gli squilibri del nostro momento storico. Non è determinante che queste attività siano svolte, o non svolte, dalla struttura pubblica o da quella privata, mentre lo è che la collettività possa condizionarle e imporle.

Questo è il vero discrimine; se la collettività può condizionare e controllare il governante o produttore privato siamo in un regime democratico in caso contrario il regime è dittatoriale. Poco importano le dichiarazioni di principio del “governante illuminato” o dell’imprenditore paternalista in base alle quali essi lavorano per difendere l’interesse collettivo; le stesse dichiarazioni hanno caratterizzato tutte le dittature, nascondendo quasi sempre una realtà drammatica.

Ovviamente a livello teorico la differenza fra le due realtà pubblico e privato è consistente ma nella realtà quotidiana ogni singolo difende il proprio interesse che prevale se non viene imposta la priorità dell’interesse collettivo. Tutte le dittature infatti hanno sostenuto la priorità degli interessi del popolo, ammantandosi anche di affascinanti nomi come “compagno” e hanno invece difeso il proprio potere, creando drammatiche disfunzioni e diseguaglianze. Discorso analogo purtroppo può oggi estendersi a buona parte dei governanti delle attuali democrazie, in quanto condizionati da una disfunzione dell’impianto istituzionale che quasi impone il prevalere dell’interesse del singolo su quello prioritario della collettività.

Il compito dell’impianto istituzionale non consiste nel determinare quale parte della produzione debba essere pubblica o privata ma nel costruire un meccanismo di imposizione e controllo della collettività sui produttori. Per cercare una soluzione al problema dobbiamo preventivamente superare il luogo comune che considera la collettività priva della conoscenza necessaria a gestire una complessa economia moderna per cui è preferibile e necessario il “governante illuminato”, che invece non esiste e si chiama dittatore.

Il livello di conoscenza necessario è certamente uno dei principali problemi che condizionano la costruzione della democrazia, ma forse oggi potrebbe essere molto semplificato. Infatti conoscenza e livello tecnologico interagiscono e si alimentano a vicenda; fino a quando la maggioranza della popolazione era analfabeta ed impiegata 12 ore al giorno in un lavoro faticoso e ripetitivo con scarso contenuto conoscitivo, il problema conoscenza poteva effettivamente sembrare insuperabile.

All’attuale livello tecnologico quasi tutte le attività richiedono e producono un livello conoscitivo e si è accentuata l’interdipendenza produzione-conoscenza, per cui le collettività sono potenzialmente in grado di esprimere la conoscenza necessaria. Il problema non è quindi più di tipo individuale ma collettivo, perché la conoscenza si costruisce con il “fare”; nasce e si sviluppa all’interno di un meccanismo produttivo e sarà tanto più elevata quanto migliore sarà l’efficienza organizzativa. Vedremo meglio l’interdipendenza produzione-conoscenza, a questo livello basta evidenziare i vincoli della conoscenza diffusa e la necessità di costruire un meccanismo capace di superarli e rendere reale il potere della collettività.

Ipotesi possibili. Dobbiamo quindi identificare i meccanismi istituzionali necessari a dare alla collettività il potere di imporre al produttore pubblico e/o privato le proprie necessità e controllare che siano soddisfatte al meglio; in mancanza cade il contenuto democratico dell’organizzazione economica innestando il circolo vizioso che riduce risorse, conoscenza ed equità distributiva e rendendo oggi impossibile qualsiasi governabilità pubblica.

Preso atto che la democrazia deve disporre di uno strumento necessario a dare potere alla collettività, possiamo preventivamente contestare un diffuso preconcetto in base al quale la democrazia è un fatto culturale e non si esporta. La democrazia si basa su due parti: un’istanza della collettività e uno strumento in grado di soddisfarla. La prima appartiene alla cultura e alla necessità dei singoli popoli, la seconda invece è una tecnologia, come il computer o l’elettricità, finalizzata a creare uno strumento per imporre le istanze sociali. Il principio che la democrazia non si esporta vale solo per l’istanza di democrazia; oggi però è molto diffusa nelle popolazioni (non nei Governi) di tutto il mondo. Lo hanno testimoniato la primavera araba e i mille movimenti libertari, che non hanno potuto prevalere perché finora manca lo strumento idoneo a trasformare l’istanza in consolidata prassi comportamentale. 

Quando il nostro impianto istituzionale funzionava è stato esportato con successo in sempre nuove parti del mondo e l’Occidente ha controllato con propri osservatori la validità democratica delle nuove istituzioni. Oggi non si esporta più perché è un prodotto avariato; resiste con fatica nei tradizionali paesi democratici per la solidità degli impianti esistenti (vedi il fallito colpo di Stato di Trump) e per la ricchezza accumulata che permette di sopportare l’immenso sperpero di ricchezze prodotto dall’inefficienza pubblica. Certamente non è esportabile là dove ancora non esiste e mancano tutti i presupposti per istallarlo.

Strumenti democratici. Per costruire uno strumento organizzativo collettivo dobbiamo identificare cosa non funziona nella nostra attuale struttura istituzionale, perché per un periodo ha funzionato e come intervenire per renderla nuovamente funzionante. Problema complesso perché le decisioni di vertice non possono fare capo alla collettività (come nei tentativi della democrazia greca), ma neppure essere delegate senza controllo; devono quindi esistere strumenti che forniscano a ciascuno il potere e la conoscenza necessari a esercitare le scelte di propria competenza. Si tratta quindi di un complicato meccanismo di delega/controllo tra base e vertice che pensiamo possa essere diretto quando riguarda i diritti, mentre per la produzione sarà necessario un meccanismo diverso che oggi manca.

Un rapporto diretto base/vertice infatti per la variabilità e imprevedibilità della produzione, perderebbe di contenuto reale trasformandosi in una delega in bianco al produttore pubblico, anticamera della dittatura. È necessari quindi una struttura, ancorata al territorio che interfacci, in forma continua e diretta, la base del produttore con la base della collettività/utente, cioè il singolo soggetto, rapporto base-base, in modo da creare il potere e la conoscenza necessari a garantire alla collettività un reale potere di imposizione e controllo.

Due sono gli elementi che caratterizzano e determinano il meccanismo democratico: un omogeneo livello di diritti della collettività e un meccanismo economico capace di rendere tali diritti reali, garantendo le condizioni economico/sociali che ne devono derivare. Diritti e meccanismi economici sono fra loro interdipendenti ma devono essere esaminati singolarmente proprio per i diversi strumenti utilizzabili, condizionati da logiche opposte; confondere i due momenti, come avviene oggi, rende il problema irrisolvibile ed è la causa principale della crisi mondiale delle democrazie.

Riconoscimento dei diritti. È la parte che il nostro impianto istituzionale che riesce a svolgere meglio ed è anche quella più facile, perché i diritti dei singoli derivano da un rapporto diretto base/vertice, sono fondamentalmente stabili e si evolvono lentamente nel tempo. La tripartizione dei poteri è stata pensata dalla borghesia proprio allo scopo di riconoscere i propri diritti superando quelli feudali: il parlamento a maggioranza borghese stabiliva le leggi (diritti), il governo le faceva rispettare e la magistratura decideva sulle vertenze.

Il rapporto diretto base/vertice con cadenza periodica è consono alla caratteristica dei diritti e alla loro evoluzione graduale; inoltre l’elettore (prima la sola borghesia poi la collettività) conosce i diritti da rivendicare, può controllare l’operato degli eletti, sostituendo i meno idonei.  Il sistema ha assolto il proprio ruolo, prima legittimando diritti e libertà della borghesia e poi garantendo una diffusa uguaglianza di diritti, tale da rendere oggi corretta la dichiarazione: “la legge è uguale per tutti”. La Costituzione italiana a questo livello è una delle più avanzate e con le successive leggi offre, almeno a livello formare, un elevato livello di diritti per tutti.

La collettività oggi forte del suffragio universale esercitato liberamente è dotata del più ampio potere e può stabilire qualsiasi livello di equità distributiva, ha come unico vincolo di disporre di un meccanismo produttivo idoneo a fornire le risorse necessarie per rendere reale e non solo formale il diritto riconosciuto. Infatti un diritto che il meccanismo produttivo non riesce a soddisfare, rimane un equivoco sogno utopico e spesso legittima i peggiori arbitri come è stata la proprietà pubblica dei mezzi di produzione: totale uguaglianza formale, nessun contenuto reale.

Il problema comunque oggi non è più legale (diritti), ma economico (livello risorse), diventa molto più complesso e, come vedremo esaminando il meccanismo produttivo, si basa sulla conoscenza del “fare” che si acquisisce solo essendo inseriti nel meccanismo produttivo. Questa situazione che attualmente esiste solo nella produzione capitalistica, manca nella produzione che richiede un maggior coinvolgimento pubblico, perché non esiste un soggetto pubblico democratico dotato degli strumenti per capire, prevedere e stimolare le necessità globali del sistema Paese.

Questa mancanza riduce la conoscenza collettiva e indebolisce la struttura pubblica, più facilmente condizionabile dai “poteri forti” che difendono i propri interessi e non quelli prioritari della collettività, impedendo i necessari cambiamenti. Se andiamo però oltre all’apparenza e cerchiamo il perché dei comportamenti, vediamo che i “poteri forti” non sono la causa delle disfunzioni denunciate ma la conseguenza della mancanza di uno strumento che doti la struttura pubblica della conoscenza/potere in grado di elaborare una sua autonoma e più avanzata strategia di sviluppo del sistema Paese.

Analogo discorso vale anche per l’altro preconcetto che ipotizza l’incapacità della collettività di autogestirsi, per cui è necessario l’uomo “forte” al comando mentre l’inefficienza pubblica è la conseguenza inevitabile della democrazia; l’incapacità di autogestione della collettività invece non deriva da vincoli culturali/esistenziali della collettività ma dal mancato inserimento in una struttura organizzativa che possa fornire ai singoli soggetti conoscenza-potere necessari per le scelte da compiere.

Certamente un maggiore livello di partecipazione collettiva alla gestione pubblica richiederà maggiore conoscenza diffusa; problema comune ad ogni allargamento della partecipazione collettiva, ma lo strumento che dobbiamo ipotizzare avrà proprio questo compito specifico. Possiamo ricordare che così è stato per il suffragio universale concesso a una collettività in buona parte analfabeta; il meccanismo delle elezioni idonee a determinare i diritti, ha investito la collettività della responsabilità della gestione di un settore che la riguardava direttamente e riusciva a valutare e le ha permesso rapidamente di evolversi, capire cosa voleva ed imporlo.

Era il tempo in cui si recava a votare il 90% della popolazione per imporre al Parlamento la realizzazione dell’uguaglianza dei diritti che ha originato le attuali democrazie. Per riconoscere i diritti del proletariato infatti le elezioni a suffragio universale, sono lo strumento idoneo perché i diritti derivano da un rapporto base/vertice e si evolvono lentamente. Sono state pensate per questo scopo, lo hanno raggiunto egregiamente, inizialmente al servizio della sola borghesia e in seguito dell’intera collettività; proprio questa secondo passaggio ha garantito gli insperati risultati delle democrazie della seconda metà del ‘900.

Struttura produttiva. Bisogna ipotizzare uno strumento capace di affrontare contemporaneamente due problemi interdipendenti necessari a realizzare una struttura democratica. Deve infatti essere in grado di dare alla collettività un potere reale di condizionamento e controllo che permetta di elaborare una visione globale del possibile sviluppo produttivo del sistema Paese, identificando politiche e strumenti strategici, necessari per realizzare l’obbiettivo specie nei settori privi di mercato. La crisi odierna nasce proprio da questa mancanza, ma quando la borghesia con l’Illuminismo francese teorizzò la tripartizione dei poteri, voleva solo legittimare e facilitare il proprio affermarsi.

Non voleva invece una strategia pubblica di sviluppo che avrebbe portato all’equità distributiva, perché era in contrasto con i propri interessi di classe privilegiata; il proletariato privo di diritti e di potere d’acquisto era uno dei principali elementi che garantiva benessere e privilegi borghesi. Lo strumento per assolvere a queste funzioni finora non è stato previsto e nessuno lo ha ipotizzato, inserendolo nel meccanismo istituzionale; forse risulta ancora contrario agli interessi dei detentori del potere. 

Il meccanismo produttivo anche solo a livello tecnico è molto complesso perché deve essere un sistema continuo capace di fronteggiare in tempo reale le piccole e grandi necessità che via via si manifestano; tale scopo deve interagire con gli altri momenti della struttura produttiva che partecipano al prodotto finale. Ancora più complesso dovendo affrontare non solo l’aspetto tecnico della produzione ma anche i vincoli democratici e quindi deve poter imporre che il singolo membro della collettività abbia la possibilità di esprime le proprie necessità disponendo degli strumenti per capirle, valutarle, esprimerle, imporle al produttore, e controllare che vengano soddisfatte al meglio.

Sembrerebbe un problema senza soluzioni possibili, ma fortunatamente non lo è; però la democrazia nasce proprio dalla capacità di risolverlo perché se il meccanismo non funziona la collettività/utente perde il potere che passa al produttore pubblico o privato; esso non ha l’interesse a soddisfarne le necessità, non disporre degli strumenti per conoscerle e privilegia inevitabilmente le proprie necessità contrarie a quelle prioritarie della collettività/utente, operando senza controllo in una logica dittatoriale.

Questo strumento è l’elemento mancante nel sistema produttivo ed è il nucleo del problema da affrontare, perché gli obbiettivi economico/sociali impongono che la collettività/utente di imporre le proprie necessità al produttore per far crescere la produzione, non più come ai tempi di Marx la “farina del diavolo” al servizio della sola borghesia, ma bensì lo strumento principale necessario a soddisfare le necessità della collettività/utente; la capacità di imporsi sul produttore (pubblico o privato non cambia) diventa quindi l’elemento determinante.

Scartate le elezioni, pensate al fine di garantire i diritti, se utilizzate nel meccanismo economico rappresentano una semplice delega in bianco al produttore e legittimano l’abuso dittatoriale. Il meccanismo invece per permettere al singolo individuo di effettuare una reale scelta economica, trasformarla in ordine e controllare che venga eseguito al meglio, è molto complesso e converrà esaminarlo più in dettaglio.

Ottimizzazione produttiva – L’acquisto: partiamo dall’acquisto che rappresenta un’operazione quotidiana così banale da non richiedere un approfondimento mentre è invece il nucleo del meccanismo produttivo e molte sono le regole e i condizionamenti relativi al suo funzionamento. Infatti nel meccanismo capitalista è lo strumento che attraverso il mercato fornisce alla collettività/utente la possibilità di soddisfare le proprie necessità e garantisce il potere d’acquisto della collettività/utente; rappresenta quindi il punto più avanzato, attualmente l’unico, di partecipazione democratica a livello economico. Svolge in campo economico le funzioni delle elezioni a livello dei diritti.

Permette infatti alla collettività/utente di conoscere le proprie necessità economiche, esprimerle, imporle al produttore e controllare che vengano soddisfatte; esse, diversamente dai diritti, sono infatti costituite da migliaia di istanze sparse nel territorio, continuamente variabili, che richiedo una struttura diffusa sul territorio, capillare, elastica, capace di recepirle e soddisfarle, adeguandosi in tempo reale.

Per meglio capire il fenomeno, partiamo dall’ipotesi più semplice di un acquisto individuale cioè fatto da un singolo membro della collettività/utente di un prodotto destinato a soddisfare le proprie necessità quali auto, casa, elettrodomestico, cibo, ecc. È una necessità facilmente identificabile perché riguarda il singolo utente che conosce quindi cosa vuole; l’utente però per effettuare la scelta deve sapere preventivamente: primo – quali risorse dispone (il proprio reddito), secondo – caratteristiche e prezzi non solo del prodotto richiesto ma anche di tutti gli altri che potrebbero in alternativa meglio soddisfare le sue necessità: un televisore o un forno a micro onde? Solo così può effettuare una scelta e non limitarsi a un semplice mi piace espressione tipica dell’impotenza.

Per soddisfare tutti questi elementi è necessario che esista uno spazio, reale o virtuale, dove si incontrano la base del produttore con la base della collettività/utente, cioè il singolo utente che potrà così esprimere la propria scelta e il rappresentante del produttore fornire le informazioni necessarie, recepire la scelta fatta e trasformarla in un contratto giuridicamente vincolante per entrambe le parti. Si arriva alla vendita, che dà all’acquirente il diritto di disporre dello specifico prodotto, controllando che caratteristiche e tempi di consegna siano quelli concordati. Grazie a questa complessa procedura il singolo membro della collettività/utente è in grado di scegliere non solo il prodotto ma anche il produttore che a suo parere ha realizzato il prodotto migliore; ha cioè realizzato l’ottimizzazione produttiva.

Si raggiunge quindi l’ottimizzazione produttiva che è, anche se ne siamo poco coscienti, l’elemento preliminare e portante di qualsiasi discorso di benessere diffuso ed equità distributiva; non è però un punto d’arrivo, ma solo un necessario punto di partenza, perché basato sull’attuale mercato e vale quindi entro i limiti delle sue possibilità globali. Vedremo in seguito tali limiti e cosa si può fare per superarli; sta di fatto che nella seconda metà del ‘900 il mercato ha svolto egregiamente la sua funzione; lo strumento rimane insostituibile e in futuro l’organizzazione pubblica dovrà e potrà utilizzarlo per superare gli attuali limiti.

Vediamo le principali caratteristiche di questo complesso processo: Primo – il produttore deve valutare e anticipare le necessità della collettività e sulla base delle proprie valutazioni realizzare la produzione; la collettività/utente poi giudicherà i risultati ottenuti e deciderà se premiarlo con utili e sviluppo oppure punirlo con il fallimento. Secondo – la collettività deve avere un potere di imposizione e controllo per costringere il produttore a soddisfare le sue necessità e non le proprie. Terzo – il produttore deve essere organizzato sul territorio e disporre di un collegamento continuo con la propria base per interfacciarsi con l’utente in modo da recepire in tempo reale le sue istanze sempre variabili. Quarto – il collegamento, come abbiamo visto, non deve essere base/vertice, che sarebbe solamente formale, ma base/base nel quale la base del produttore si interfaccia con la base della collettività cioè il singolo utente, per inserire la richiesta dell’utente all’interno della catena gerarchica/conoscitiva dell’azienda, che elabora i dati e i vincoli relativi all’acquisto.

Qualsiasi programma di benessere collettivo ed equità distributiva deve andare oltre l’ottimizzazione produttiva che però è preliminare in quanto strada obbligata per sviluppare sia la conoscenza che le risorse economiche necessarie per rendere reale qualsiasi programma sociale. Mentre capiamo l’importanza della conoscenza è meno sentita quella della produzione e quindi sarà utile soffermarci sull’argomento che è fonte di troppi equivoci interpretativi.

Crescita conoscenza: la necessità della conoscenza è meno discussa, ha radici antiche, basta ricordare Dante, “nati non foste a viver come bruti ma per seguir virtude e conoscenza”, però comunemente si tendono a considerare le fonti della conoscenza i luoghi a questo titolati, scuole, università ed altro. Salvo casi particolari, rappresentano invece solo un passaggio propedeutico necessario ma non sufficiente perché deve seguire la conoscenza del “fare”; vale per qualsiasi attività, quale lo sportivo, il medico, l’architetto, il militare, cioè chiunque svolga una qualsiasi attività. Vale in particolare per l’attività economica, anzi ne è il pilastro portante ma spesso questo aspetto lo sottovalutiamo forse a causa dello scarso interesse riservato alla crescita della produzione.

Crescita della produzione: per condizionamenti storici, è raramente vista come un fenomeno positivo e questo falsa la maggioranza delle analisi. Vediamo i principali condizionamenti. Il primo è come sempre di origine marxista che continua a influenzare il nostro inconscio meccanismo valutativo; viceversa Max aveva perfettamente ragione a considerare la produzione “farina del diavolo” perché serviva solo alla borghesia e non aiutava ma peggiorava la situazione del proletariato. Quando dopo la guerra, con il suffragio universale, la produzione è stata messa al servito la collettività, la sua crescita è diventa uno dei principali strumenti per il benessere collettivo e l’equità distributiva.

Priva di senso è quindi l’alternativa della “decrescita felice”, abbinata a una più equa distribuzione delle risorse, perché diventa il solito discorso demagogico che cerca il “cattivo” e non le cause delle disfunzioni e rimane quindi privo di contenuto reale sia sociale che tecnico. Sotto il profilo sociale è più facile aumentare la produzione del pane per garantirlo a tutti che toglierne parte a chi ce l’ha per darlo a chi non ce l’ha; comunque parlando di equità sociale il discorso potrebbe avere un minimo di significato all’interno delle attuali democrazie avanzate ma, come vedremo, sarebbe una presa in giro di fronte alla disperazione degli altri.

Sotto il profilo tecnico comunque la possibilità della “decrescita felice” presuppone che si fermi parallelamente l’evoluzione tecnologica; non essendo possibile il presupposto, si ricreerebbe la situazione dell’Ottocento, quando la produttività cresceva ma la produzione rimaneva costante, per cui non aumentava il benessere ma la disoccupazione con fette crescenti del proletariato che venivano espulse dal ciclo produttivo e costrette ad emigrare. Situazione decisamente poco felice. Oggi, non per scelta, ma a causa della rottura del meccanismo produttivo, assistiamo nuovamente a una crescita insufficiente, decisamente “non felice”, come vedremo affrontando specificatamente i due punti cioè occupazione e crescita.

Altro elemento di opposizione alla crescita produttiva deriva dalla complessità delle regole dell’economia, dove la realtà è spesso l’opposto di quella che appare ed è difficile orientarsi senza la conoscenza del “fare”, che però oggi resa problematica mancando uno strumento pubblico in grado di recepire le necessità globali del sistema Paese. Nessuno infatti in questa situazione è in grado di traguardare l’intero sistema economico e le sue strategie. Inevitabile che lo strumento di sviluppo sociale esamini solo il momento produttivo aziendale e il rapporto padrone/lavoratore; prassi non più idonea oggi ma corretta in passato assolvendo il proprio compito.

L’organizzazione aziendale. Il nucleo di questo complesso processo produttivo è l’azienda e quindi dobbiamo esaminarla per capire come opera e quali sono ii suoi punti di forza e debolezza. Essa è diffusa sul territorio ed è costituita da una piramide gerarchico/conoscitiva dove la base recepisce le singole specifiche necessità, le elabora per la parte di propria competenza e trasmette ai livelli limitrofi e superiori le rimanenti, affinché livello per livello possano risalire ai vertici aziendali. I vertici, ricevute le informazioni di propria competenza, effettuano le scelte necessarie per gestire coordinamento e potere che sempre attraverso i vari livelli discendono dal vertice alla base.

Infatti per produrre è necessario che una serie di uomini inseriti in una struttura produttiva siano scelti, indirizzati e coordinati al fine di raggiungere l’obbiettivo produttivo comune. In un’azienda piccola l’imprenditore può essere uno dei pochi soggetti decisionale che effettua le scelte necessarie; nella prevalente realtà i soggetti coinvolti sono tanti e devono essere tutti parte di un comune processo produttivo.

In passato c’era una minoranza di soggetti decisionali e la stragrande maggioranza utilizzata in lavori faticosi, ripetitivi, imposti dall’alto e privi di partecipazione conoscitiva. L’evoluzione tecnologica ha progressivamente eliminato i lavori di pura esecuzione e ha fatto crescere quelli che richiedevano uno spazio decisionale. In prospettiva tutti i lavori avranno un aspetto decisionale più o meno ampio; questo significa che tutti dovranno disporre della conoscenza/potere necessaria alla specifica funzione. 

Per capire cosa significa possiamo fare riferimento alla conoscenza/potere necessari ad esempio per guida di un’automobile; serve preventivamente una generica conoscenza, acquisita con l’ottenimento della patente, utile ma solo propedeutica, perché per guidare ed imparare a guidare è determinante guidare, cioè essere seduti, fisicamente o virtualmente, al posto di guida; tale è il punto in cui arrivano sia le informazioni necessarie (vedere strada e strumenti), sia le leve di comando (volante, marcie, freno e acceleratore). Se qualcuno di questi elementi manca non si può guidare né acquisire la conoscenza necessaria.

Se il posto utilizzato non è quello di guida ma è stato ugualmente assunto un autista, il soggetto fruisce di uno stipendio più o meno elevato (vantaggi del ruolo) e sono possibili due ipotesi. La prima – manca di conoscenza/potere (non vede e non ha i comandi), resta fermo, limita i danni ma viene a mancare il servizio che si poteva produrre. La seconda – ha un limitato potere ma senza la conoscenza necessaria (non vede, ma dispone di acceleratore e freno), offre uno scarso servizio e produce notevoli danni; inevitabile che cerchi un vicino per avere qualche informazione.

Mi sono soffermato su questo paradosso perché la maggioranza dei punti decisionali della struttura pubblica rappresentano “posti di guida” privi di conoscenza e con scarso potere, permettono significativi vantaggi collaterali ai soggetti (gli autisti) nominati, ma offrono pochi prodotti e molti danni. È proprio questo vuoto nell’impianto istituzionale democratico che crea la crisi mondiale delle democrazie.

Aggiungiamo che tutti questi punti decisionali devono operare in tempo reale, essere fra loro coordinati ed integrati; questo è possibile, ripetiamo, solo utilizzando una piramide gerarchico/conoscitiva in cui ogni livello riceve le informazioni necessarie dal livello sottostante, ha il potere relativo alle decisioni da prendere e trasmette le informazioni necessarie sia al livello superiore che a quello finitimo. L’efficienza di questa complessa struttura è il nucleo sia dell’efficienza produttiva sia della possibilità di soddisfare correttamente le necessità della collettività.

Le necessità organizzative e i vincoli dell’acquisto, determinano il livello di libertà necessaria ad ogni struttura operativa. L’Autorità deve stabilire le regole e farle rispettare per quanto riguarda i vincoli comportamentali, sindacali, fiscali, ecologici, di sicurezza ed altro, ma poi il produttore deve essere totalmente libero per quanto riguarda le scelte e le strategie produttive. Ha un unico vincolo/obbiettivo ed è misurato dal risultato ottenuto, cioè l’ottimizzazione produttiva raggiunta; la produzione è infatti scarsamente programmabile ed è frutto di libertà, imprevedibilità, casualità ed intelligenza. È come il gioco del calcio: servono regole precise e un arbitro che le faccia rispettare, per evitare che degeneri in violenza, ma i giocatori devono operare in totale libertà e decidere la strategia di gioco secondo capacità, estro e casualità del momento.

Il risultato di questo sforzo organizzativo porta all’eccellenza produttiva; un qualsiasi oggetto di uso comune, quale un telefonino, auto, computer, contiene al suo interno un know how che spesso vale di più degli impianti della stessa azienda che lo ha costruito. Esso è il risultato di decine, spesso centinaia di migliaia, di “posti guida”, anche ubicati in più aziende, nei quali operano uomini, coordinati e finalizzati allo stesso obbiettivo, inseriti in una catena gerarchica/conoscitiva capace di integrarli e coordinarli per fornire a ciascuno, per la parte di propria competenza, la conoscenza e il potere necessari in modo che la loro intelligenza e fantasia creativa interagiscano per determinare il risultato finale.

In ultimo il meccanismo di ottimizzazione controllato dal mercato limita anche il profitto imprenditoriale che in un regime di reale concorrenza rimane molto contenuto e rappresenta un 2%-3% del valore del prodotto. Valore molto simile a quello che preleva, sul valore della propria attività, un qualsiasi professionista quale notaio, architetto, broker, calciatore, cantante, attore ed altri; per tutti questi soggetti valutiamo il prelievo legittimo in quanto frutto della propria attività, solo per l’imprenditore invece lo valutiamo un furto ai lavoratori impiegati. Tipico esempio di come i preconcetti ideologico/sociali ci impediscono di capire. 

Invece a fronte di quel 2%-3% l’imprenditore ha un pesante compito: deve identificare le necessità della collettività/utente, organizzare la produzione per soddisfarle al meglio e pagare con il fallimento l’errore valutativo; ben diversa è la situazione della mano pubblica che preleva più di un 50% del prodotto (Pil), ignora le necessità della collettività, fa poco per soddisfarle e nessuno paga per gli errori commessi. Non è errato affermare quindi che l’imprenditore “regala” e non “ruba” risorse alla collettività perché il suo valore aggiunto è superiore al suo costo.

Precisazioni. Abbiamo visto come l’ottimizzazione produttiva che permette la crescita delle conoscenze e delle risorse è il nucleo del problema da affrontare ed anzi il livello di capacità produttiva ha sempre identificato l’evoluzione della civiltà umana. Abbiamo già detto che quando parliamo di produzione intendiamo tutto ciò che è stato o dovrebbe essere prodotto per soddisfare le necessità della collettività; per evitare equivoci sarà però utile ritornare su quanto detto e precisare cosa intendiamo quando parliamo di aumento di capacità produttiva.

Non ci riferiamo infatti a telefonini, frigoriferi ed altro, cioè tutti quei prodotti che offre il capitalismo controllato dal mercato e sono, almeno per i paesi avanzati, già così abbondanti da sconfinare nel consumismo con il relativo rifiuto. L’insieme di questi beni però oggi costituisce la totalità della produzione e invece dovrebbe esserne solo un 30%; l’altro 70% però non viene prodotto e spesso non riesce neppure a comparire, perché mancano gli strumenti necessari anche solo a manifestarsi, creando così l’esistente stabile squilibrio.

Il 70% non prodotto comprende infatti, infrastrutture, equilibrio ecologico, riscaldamento globale, consumi energetici, vivibilità delle città e molto altro; è la parte produttiva predominante e strategica da cui ormai dipende tutto, anche la sopravvivenza della nostra società. È però la parte di produzione non gestibile dal mercato e quindi attualmente priva degli strumenti necessari per recepirla, produrla e realizzare l’ottimizzazione produttiva. Viene così a mancare sia una parte determinante della produzione che blocca la crescita del sistema paese, sia soprattutto la possibilità di creare una conoscenza collettiva del meccanismo che coinvolge la globalità economica; diventa questo il principale ostacolo alla crescita democratica.

Solo superando questo condizionamento potremo ritrovare nella collettività quella intelligenza assopita e non utilizzata necessaria a raggiungere l’obbiettivo fondamentale per rendere le democrazie nuovamente vincenti e in grado di travolgere le dittature. L’ottimizzazione produttiva infatti produce e ha necessità di intelligenza, libertà e casualità, caratteristiche tutte incompatibili con la dittatura basata su imposizione e dominio. Per la prima volta potremo creare una società, non più condizionata dallo sfruttamento, ma governata dal diritto. Non credo sia un sogno utopico, ma un’ipotesi possibile; non esistono comunque alternative e tutto il resto alimenta solo il bla.bla.bla. dei politici, denunciato da Greta

Cap. III – SPLENDORE E CRISI DELLE DEMOCRAZIE

Sintesi storica. Una breve carrellata storica può aiutare a capire cosa ha funzionato nel nostro sistema economico/istituzionale per facilitare l’identificazione di possibili soluzioni.

Dominio borghese nell’Ottocento: L’evoluzione tecnologica ha incominciato a manifestarsi con crescente velocità nell’Ottocento e avrebbe potuto permettere un significativo aumento di produzione e risorse, che era però contrario agli interessi della borghesia al potere. Ogni aumento di produttività non ha aumentato la produzione e il benessere collettivo ma solo la disoccupazione con una percentuale crescente del proletariato che veniva espulsa da ciclo produttivo

La borghesia a fine secolo ha vissuto la belle époque, suo momento di massimo splendore, mentre il proletariato, privo di diritti, ha subito la peggiore miseria, costretto per un 50% ad emigrare. Un significativo aumento della produzione avrebbe infatti richiesto una analoga crescita della domanda globale ottenibile solo con una crescita dei salari, ledendo i privilegi borghesi.

Keynes nel ’28 aveva previsto un possibile aumento della produzione di 4 volte (400%) e invece solo l’anno successivo con la crisi del ’29, i salari si sono ridotti (in Italia del 10%), evidenziando che una società industriale basata sull’economia di scala, non poteva tecnicamente reggere con il proletariato, la parte predominante della popolazione (più del 95%), privo di potere d’acquisto. Veniva infatti a mancare più del 70% della domanda globale, rompendo il fragile equilibrio economico; la collettività ha pagato la caduta dei privilegi borghesi con le dittature e la guerra.

Binomio capitalismo/democrazia della seconda metà del ‘900. Il suffragio universale, diventato finalmente reale dopo la guerra, ha spinto la struttura pubblica a realizzare l’uguaglianza dei diritti, mentre l’efficienza del sistema capitalistico, messo finalmente al servizio della collettività ha permesso di rendere reale i diritti raggiunti trasformandoli in potere d’acquisto. Nel breve periodo che va dagli anni ’40 (fine della guerra) agli anni ’80, i famosi “trenta gloriosi”, la struttura istituzionale (pubblico) ed economica (capitalismo) si sono integrati, permettendo di sfruttare in pieno la potenzialità produttiva del sistema e di raggiungere risultati che in precedenza sembravano impossibili.

Riporto alcuni dati, più dettagliatamente esposti in Scacco alla crisi (De Ferrari – Genova-2010). In termini quantitativi la produzione delle democrazie avanzate da inizio a fine ‘900, ma principalmente nel periodo indicato, è aumentata di 10 volte (1.000%). A livello dell’equità distributiva i risultati sono stati ancora migliori; sinteticamente (elaborazione Banca d’Italia 2004) in Italia il 50% della popolazione fruiva del 50% delle risorse, vi era poi un 15% ricco e un 35% povero, però il reddito medio del 10% più ricco era “solo” 10 volte quello del 10% più povero.

Facendo riferimento ai soggetti più ricchi risultava che il 2,2% della popolazione fruiva del 10% dei redditi totali, che diventava 26,7% se si considerava il 10% più ricco della popolazione; facile dedurre che il reddito di quel 5% di soggetti privilegiati, che costituiva la borghesia, si era ridotto dal 90% a meno del 20% del totale, confermando già a livello numerico la nascita della società post borghese.

I dati reali, al di là della fredda logica numerica, erano ancora migliori perché, secondo l’uso consolidato, facciamo sempre riferimento solo a redditi monetari, cioè la disponibilità economica dei singoli, ma trascuriamo il reddito non monetario prodotto dai vari servizi gratuiti di cui si disponeva e che non esistevano prima; basta pensare a sanità, istruzioni (allora eccellenti) ed altri benefit che l’equilibrio economico/sociale metteva liberamente a disposizione.

Vi è poi il capitolo poco misurabile, ma ancora più importante relativo al livello di diritti e libertà raggiunti. Anche in questo settore possiamo parlare di un aumento di 10 volte, che sottolinea il risultato incredibile; mai nella storia si era raggiunto un tale livello di benessere diffuso, libertà, diritti ed equità distributiva. Se a un operaio/proletario di inizio ‘900 avessero illustrato le possibili condizioni di cui avrebbe fruito un analogo operaio di fine secolo lo avrebbe valutato il solito sogno utopico. Il risultato è stato possibile grazie alla mano pubblica capace di regolamentare e controllare la travolgente capacità produttiva del capitalismo e di integrarla con la logica distributiva ugualitaria.

Era l’ora delle democrazie vincenti: l’imprenditore non era più considerato il “padrone” da combattere, ma il soggetto necessario per difendere occupazione e crescita economica. Situazione non solo italiana ma comune a tutte le democrazie mondiali, che potevano nascere e consolidarsi, con i grandi leader, la sinistra e i sindacati come forza propulsiva e la simbiosi capitalismo/democrazia. Si è capito che, in contrasto alla teoria del plus valore, l’aumento dei salari non derivava da una riduzione della quota del “padrone” ma dall’aumento della capacità produttiva; il margine imprenditoriale è infatti condizionato dalla concorrenza e non dalla pressione sindacale. I risultati economici quindi non erano stati raggiunti a livello tecnico (aziendale) ma politico (diritti e gestione economica). 

Nella II metà del ‘900 esisteva solo il binomio capitalismo/democrazia e tutti i paesi democratici erano capitalistici e il capitalismo avanzato, prosperava solo nei paesi democratici. Esisteva infatti una virtuosa interdipendenza reciproca fra pubblico (diritti) e privato (produzione); il pubblico aumentava i diritti facendo crescere in sequenza, salari, domanda globale, aziende tecnologicamente più avanzate, risorse e conoscenza. Questo processo premiava la libertà possibile, necessaria e antitetica all’imposizione dittatoriale.

La democrazia si imponeva progressivamente in Europa e in tutti i Paesi avanzati, mentre le soluzioni alternative fallivano. Tutto il meccanismo produttivo che permetteva di soddisfare le necessità della collettività rendendo reali i diritti acquisiti aveva il mercato come elemento portante della propria efficienza economica; facile capire che il suo funzionamento era condizionato dalla possibilità di funzionamento del mercato ed è quindi entrato in crisi quando lo sviluppo economico è andato oltre ai suoi limiti. 

Questo è avvenuto verso la fine del ‘900 a seguito dello sviluppo economico del dopoguerra che ha interrotto il circolo virtuoso di ottimizzazione produttiva, crescita risorse e conoscenza iniziando la crisi della democrazia. Una situazione analoga si era verificata alla fine del ‘700: la borghesia e il meccanismo capitalistico, si erano fino allora affermati, all’interno di logiche e istituzioni feudali, ma la crescita produttiva le ha rese progressivamente incompatibili con la nuova situazione imponendo, attraverso la rivoluzione francese, il radicale cambiamento realizzato dalla tripartizione del potere necessaria al potere borghese.

Così a fine ‘900 lo sviluppo dell’ultimo mezzo secolo ha rotto il precario equilibrio esistente ed ha rilevato l’incompatibilità della logica istituzionale borghese con le nuove necessità. I detentori del potere politico non hanno più creato benessere collettivo ma difeso solo i propri privilegi, incompatibili con il salto tecnologico della rivoluzione elettronica. Per uscire dal presente stallo dobbiamo capire il punto di rottura; inutile condurre l’analisi più facile del come si è rotto il meccanismo (Trump, Putin, Salvini, ecc.) è necessario identificare il perché questo è avvenuto. Più complesso ma necessario, per non continuare una sterile critica al presente priva dell’esame delle ferree necessità che lo hanno determinato. 

La rottura. Limiti del mercato. Era prevedibile ed inevitabile che con la fine del ‘900, la maggiore complessità economica non poteva più essere gestita solo dal mercato, non più in grado raggiungere in tutti i settori l’ottimizzazione produttiva e adeguare la crescita di risorse e conoscenza alle maggiori possibilità/necessità sociali che l’evoluzione tecnologica rendeva possibili e necessarie. Non è escluso che domani l’intelligenza artificiale possa, anche se lo dubito, identificare soluzioni alternative ma per il momento è meglio limitarsi confrontarci con il presente

Per esaminare quali compiti il mercato può assolvere e quali gli sono negati, è utile premettere che il mercato è uno strumento rigidamente meritocratico che premia i migliori e come tale consono alla logica borghese di classe privilegiata. L’obbiettivo forse possibile di costruire uno strumento coerente con la nuova società post borghese, più ugualitaria e sensibile alle necessità delle categorie deboli, potrà imporre un diverso uso del mercato. Vedremo però che è difficile realizzarlo a livello produttivo per i vincoli dell’ottimizzazione produttiva, mentre è più facile ipotizzarlo per la distribuzione delle risorse dove l’assegnazione a ciascuno secondo i propri bisogni, almeno parzialmente, potrebbe essere meno utopistica.

Vediamo quindi funzioni e limiti del mercato senza dimenticare che per anni ha rappresentato la linea di divisione fra il socialismo (sinistra) che lo vedeva come l’origine di tutti i mali e il liberismo (destra) per il quale era invece un dio onnipotente capace di garantire benessere a tutti e risolvere qualsiasi problema. Entrambi avevano torto perché il mercato è solo un eccellente mezzo tecnico insostituibile per determinate funzioni ma incapace a svolgerne altre. Le caratteristiche del mercato sono di due tipo: 1) ambito d’impiego, 2) funzioni e limiti. Esaminiamoli separatamente

Ambito d’impiego. Vediamo per prime le funzioni nelle quali risulta insostituibile:

Primo. Coordinamento dell’insieme produttivo oggi globale: la richiesta di un solo bene in più in Italia costringe la struttura produttiva mondiale a modificarsi per adeguarsi, in tempo reale, alle nuove necessità. Il cambiamento prodotto dalla maggiore domanda del singolo bene è infinitesimale ma esiste, il mercato ha la funzione di adeguare le singole produzioni alle necessità globali. Forse in un domani, anche se improbabile, l’elettronica potrà svolgere questa funzione, ma oggi è l’unico strumento possibile per evitare l’inefficienza produttiva per eccedenze o mancanze.

Secondo. Dare alla collettività lo strumento per esprimersi, far conoscere le proprie necessità e imporle alla struttura produttiva.

Terzo. Risposta, sempre in tempo reale, all’imprenditore sulla validità della scelta fatta, eliminando coloro che non hanno realizzato l’ottimizzazione produttiva; questa funzione permette all’imprenditore un controllo continuo della sua attività, fornendogli la conoscenza per aggiustare organizzazione e obbiettivi al fine di realizzare l’ottimizzazione produttiva, nucleo del sistema economico, che genera risorse economiche e conoscenza.

Il mercato però presuppone la possibilità di una concorrenza e quindi ha forti limitazioni sugli ambiti d’impiego perché l’evoluzione fa crescere per motivi diversi situazioni e settori in cui non può operare:

Settori sociali – quali sanità ed istruzione; abbiamo giustamente pensato che questi settori garantiscono un servizio dovuto e quindi deve essere gratuito per garantirlo a tutti indipendentemente delle possibilità economiche. È stato quindi sottratto alla logica del mercato e la situazione non varia anche se l’utente, come spesso succede, parzialmente paga il servizio effettua. Infatti se il pagamento fosse totale la scelta sarebbe effettiva e basata sull’efficienza del produttore; se invece viene fornito in parte gratuito la scelta perde di contenuto perché o si accetta il servizio com’è o se ne fa a meno.

Servizi al territorio – quali trasporti urbani, rifiuti, infrastrutture e altri servizi; l’utilizzo è obbligato, con alternative inesistenti, e il bilancio dell’azienda produttrice non deriva dall’ottimizzazione produttiva, ma dal livello dei prezzi di erogazione che sono stabiliti non dall’ottimizzazione produttiva imposta dalla concorrenza, ma dall’Autorità e quindi poco significativi anche come indice di efficienza.

Vincoli temporali e dimensionali – quali riscaldamento globale, migranti, scontri geopolitici (Ucraina), vivibilità urbana e molti altri; in questo caso non esiste neppure una finta domanda individuale, perché la collettività non dispone neppure dello strumento per esprimere le sue necessità salvo le varie manifestazioni che però, come il mi piace, sono l’espressione dell’impotenza.

In sintesi l’evoluzione economico/sociale della seconda metà del ‘900 ha soddisfatto le prime necessità elementari di un proletariato che disponeva finalmente del potere d’acquisto, però l’attività svolta e l’ampliarsi delle istanze sociali hanno imposto istanze più complesse, non controllabili dal mercato, che sono progressivamente diventate prevalenti. La percentuale produttiva priva di controllo non è facile da stabilire ma può essere stimata intorno al 70% del totale; il valore non è esagerato pensando che il solo prelievo fiscale raggiunge il 50% del Pil, ad esso dobbiamo aggiungere tutti i servizi gestiti dalla mano pubblica perché operati in regime di monopolio naturale e tutto ciò che si doveva fare e non è stato fatto, cioè il nucleo principale della disfunzione.

Un 70% della produzione è la parte maggioritaria e la sua importanza cresce ulteriormente se teniamo conto che rappresentano attività strategiche che condizionano l’intero sistema quali ad esempio istruzione, sanità, infrastrutture, equilibrio ecologico ed altro. Tutta questa parte di produzione non solo manca di uno strumento di ottimizzazione produttiva, ma spesso le relative necessità non dispongono neppure di uno strumento per esprimersi ed imporsi

Soluzioni adottate. Costatate l’esistenza di questo problema si è valutato che era necessario garantire un diverso e maggiore controllo della collettività, ma con un’ingenuità inaccettabile, e forse per motivi non dichiarabili, si è pensato che per raggiungere l’obbiettivo era sufficiente delegare la gestione di questo settore produttivo alla mano pubblica. Nessuno dei politici e della società civile si è chiesto se la struttura pubblica aveva gli strumenti necessari a svolgere questa funzione.

La convinzione, direi il preconcetto forse inconscio ma diffuso, presupponeva infatti che il capitalista inseguiva il proprio profitto quindi un interesse legittimo ma privato, mentre la struttura pubblica era naturalmente delegata a difendere l’interesse della collettività e del suo benessere. L’affermazione è corretta se parliamo della logica astratta delle due organizzazioni ma il comportamento degli uomini coinvolti è analogo, perché come è normale, tutti, politici, funzionari, operatori privati, difendono il proprio interesse.

Non solo ma, non per bontà ma per vincoli organizzativi, il comportamento del privato è spesso “oggettivamente” più virtuoso di quello del soggetto pubblico; infatti il privato per inseguire l’interesse privato del profitto, realizza l’ottimizzazione produttiva, cioè un interesse collettivo che fa crescere risorse e conoscenza. Politici e funzionari pubblici invece, pur dichiarando che inseguono l’interesse collettivo, privi di un controllo reale sui risultati della loro gestione economica, subiscono meccanismi perversi decisionali, che impongono lo spreco di risorse per garantire a sé e al territorio, risorse, potere e privilegi.

Non si è affrontato questo problema, preferendo la semplificazione manichea che il padrone “ruba” il profitto mentre politici e funzionari difendevano la collettività. Con le solite eccezioni che confermano la regola, l’affermazione è falsa e il comportamento virtuoso del soggetto pubblico non è automatico, viene solo presupposto ma corrisponde al sogno utopico del governante buono che legittima tutte le dittature.

Superata quindi la soluzione manichea di sostituire uomini “buoni”, politici e funzionari, agli uomini “cattivi”, imprenditori, dobbiamo cercare una soluzione reale. Il problema infatti non è se l’interesse pubblico è difeso meglio dalla produzione pubblica o da quella privata, ma quali strumenti sono necessari per imporre al singolo produttore coinvolto (imprenditore, manager, politico, funzionario ed altri), di servire correttamente le necessità prioritarie della collettività/utente e non le proprie; cioè quale meccanismo coercitivo può sostituire il mercato.

Vi sono due problemi da risolvere fra loro interdipendenti, il limite di ottimizzazione produttiva del mercato (efficienza) e quali strumenti fornire alla collettività per poter imporre le proprie necessità (democrazia). Se la collettività manca del potere di imporre le proprie necessità, avviene quello che è successo con la proprietà pubblica dei mezzi di produzione, principio nobilissimo che ha autorizzato un ristretto gruppo di operare senza controllo in totale arbitrio.

Limiti d’efficienza. Il mercato ha dei limiti di ottimizzazione produttiva perché è solo un efficiente strumento tecnico, propedeutico ed utile, ma non ha la possibilità di gestire l’attività economica né le sue linee strategiche, che sono esclusivamente di competenza dell’uomo, cioè l’imprenditore, e della struttura aziendale che lo supporta. L’imprenditore utilizza il mercato per controllare la validità del suo operato e per rilevare serie storiche che possono aiutare a prevedere la situazione futura; questo uso previsionale è però utile se l’evoluzione è lenta, se invece è veloce, come oggi, è facilmente falsante, ed impone all’imprenditore un più alto livello di fantasia creativa, per valutare come l’evoluzione modifica la situazione.

l’imprenditore e la sua struttura produttiva sono quindi i soli responsabile dell’organizzazione aziendale e delle scelte strategiche e la loro possibilità di svolgere questa funzione non deriva dalla loro intelligenza, utile ma non sufficiente, ma dal loro inserimento all’interno della azienda che grazie a una catena gerarchica/conoscitiva costituita da migliaia “posti di guida” è in grado di fornire la conoscenza e il potere necessari a tutti i suoi partecipanti.

Il potere crea la conoscenza e viceversa; l’eccellenza del risultato finale deriva proprio dal realizzare quasi per ogni soggetto impiegato un “posto di guida”, inserendo tutti i soggetti aziendali in una struttura piramidale divisa per livello, all’interno della quale ciascuno dispone della conoscenza e del potere propri del suo specifico livello e trasmette ai livelli superiori e collaterali quanto di loro specifica competenza. Solo la capacità di interagire e integrarsi di tutti i membri dell’organizzazione, mette a fattor comune tutte le intelligenze e conoscenze, per raggiungere la conoscenza possibile e necessaria per l’eccellenza produttiva.

Questa struttura organizzativa fornisce infatti il contenuto conoscitivo che caratterizza l’imprenditore e la struttura aziendale che lo sostiene, ed è indispensabile non solo per realizzare l’ottimizzazione produttiva, ma anche semplicemente per produrre. Solo l’organizzazione produttiva può garantire la specifica conoscenza del “fare”, senza del quale la produzione non esiste. Le aziende però sono inserite in un meccanismo di specializzazione produttiva e quindi la loro specifica conoscenza riguarda solo il settore di attività svolta, indipendentemente se parliamo di aziende privati o “pubbliche” del capitalismo di Stato.

Tutti quindi conoscono necessità e possibilità dei singoli settori produttivi ma nessuno gestisce, e quindi conosce, quelle che condizionano lo sviluppo economico dell’intero sistema Paese. Formalmente questa funzione dovrebbe essere svolta dal Governo che dovrebbe traguardare in una visione unitaria e globale la produzione del sistema Paese. Così non è; di conseguenza il sistema economico è costituto da mille organizzazione, costituite dalle varie aziende, che si auto organizzano e ottimizzano, ma manca un meccanismo centrale che coordini e ottimizzi l’insieme. Ha quindi retto nella fase iniziale fino a quando l’economia ha potuto autogestirsi e crescere facendone a meno, quando le interferenze fra i singoli soggetti hanno prevalso è iniziata la crisi.

Che il Governo non abbia la possibilità di assolvere questa funzione è abbastanza evidente. Già la definizione di “potere esecutivo” sottolinea che non aveva una funzione di gestione ma solo di far eseguire le leggi che promulgava il Parlamento. D’altronde quando, con la tripartizione dei poteri, la borghesia ha costruito il nostro impianto istituzionale non aveva previsto questa funzione economica/operativa, che era scarsamente necessaria e soprattutto contraria ai suoi interessi di classe minoritaria e privilegiata.

La struttura del Governo è infatti simile a quella di un’organizzazione consulenziale in cui ciascuno è competente (quando lo è) di una specifica funzione, fornisce il suo contributo al discorso generale ma nessuno, né al vertice né all’interno della struttura, ha la responsabilità gestionale dell’operatività economica. I singoli sono infatti poco inseriti nella catena gerarchica operativa che permette la nascita della conoscenza diffusa e il suo utilizzo per l’obbiettivo produttivo.

 Poco, per non dire niente, si sono curare le interdipendenze fra i vari e i diversi livelli, l’autonomia decisionale di ciascuno e il raggiungimento della necessaria conoscenza, generale e non specifica. Ogni decisione pubblica prevede il “concerto” di un’infinità di soggetti; questo non deriva dall’ampiezza dell’organizzazione pubblica ma dalla mancanza di intermedi “posti di guida” necessari a creare conoscenza/potere necessario.

Questo aspetto rappresenta l’elemento mancante dell’attuale impianto istituzionale ed è la causa della crisi attuale; possiamo ricordare che quando nel ‘700 è stata pensata l’intera struttura istituzionale si pensava che il compito del Governo fosse fondamentalmente la gestione della forza cioè ordine pubblico e difesa (allora chiamata guerra). In tali settori infatti è stato da subito prevista una struttura operativa, forza pubblica ed esercito, organizzata per livelli, sulla base della logica aziendale.

È stato così possibile in entrambi i campi rilevare tempestivamente le varie necessità e fornire una risposta immediata. Di fronte a un’aggressione o un furto chi lo subisce non si rivolge al suo politico di fiducia o al vertice della struttura operativa, ma telefona al 112, base della struttura in servizio 24 ore su 24, che attraverso l’organizzazione gerarchica in cui è inserito può allertare una pattuglia di servizio ed ottenere un pronto intervento. Solo questa organizzazione può contrastare il crimine; discorsi analoghi valgono per la difesa quando e l’utilizzo dell’esercito.

Niente di questa organizzazione esiste negli altri settori operativi, sono principalmente organismi valutativi con rare eccezioni. La principale eccezione è la Banca Centrale (ieri Banca d’Italia oggi U.E.); essa svolge una funzione generale per soddisfare gli indirizzi del potere pubblico. Nell’Ottocento, in Italia durante il potere borghese, si è limitata a svolgere funzioni tecniche senza intervenire quando l’aumento di produttività faceva aumentare la disoccupazione. Solo nella seconda metà del ‘900 grazie al suffragio universale è diventata lo strumento principale, per non dire l’unico, di gestione economica per raggiungere l’equilibrio economico di domanda/offerto e permettere che la crescita della produttività non si trasformasse in disoccupazione, ma in aumento di risorse e benessere collettivo

 Per svolgere questa funzione determinante, dispone infatti di conoscenza/potere necessari grazie a una piramide gerarchica/conoscitiva che le permette di una continua regolazione di un settore complesso condizionato da forze sempre in evoluzione che richiedono interventi successivi e una forte sensibilità per evitare gli opposti eccessi successivi. Intervento è fondamentale, ma è solo quantitativo, non ha la conoscenza/potere per un’attività di indirizzo qualitativo.

A parte questa organizzazione e forse altre marginali, la struttura pubblica non dispone degli strumenti per elaborare una autonoma strategia economica, ecologica, di risparmio energetico o altro. Il risultato è drammatico e giustifica la situazione attuale: esistono migliaia di punti di ottimizzazione produttiva efficienti ma specialistici e manca un soggetto pubblico capace di controllare l’equilibrio generale ed elaborare le strategie di sviluppo, che è la funzione principale, sempre più determinante per l’equilibrio economico/sociale.

Il risultato è la crescente difficoltà ad elaborare una strategia e fronteggiare con anticipo le difficoltà future. L’unico strumento disponibile solo i molti convegni e gli inutili dibattiti che portano i politici, nel migliore dei casi, ad affidarsi alla valutazione degli imprenditori privati, unici a disporre di uno strumento, l’azienda, in grado di elaborale le strategie. Sono spesso valutazioni non sbagliate ma parziali e inoltre condizionate dai legittimi interessi in gioco che difficilmente coincidono con gli interessi del sistema Paese.

Abbiamo così una struttura economica caratterizzata da mille efficienti punti autonomi di ottimizzazione produttiva e nessun soggetto delegato a coordinare l’intera struttura ed elaborare strategie coerenti. Il sistema ha retto nella prima fase perché, grazie alla limitata interferenza delle singole produzioni, poteva autoprogrammarsi; si è bloccato appena è non è stato più possibile a causa dello sviluppo economico e della crescita della complessità produttiva. il passaggio è avvenuto verso le fine del ‘900 rompendo qualsiasi equilibrio possibile.  

Un esempio – le Autostrade del Mare. Come parziale esempio di quanto detto, attingendo dalla mia esperienza logistica, posso citare l’esempio delle Autostrade del Mare, che sottolineano caratteristiche e limiti dell’intervento pubblico. Negli anni ’70 si è incominciato a impiegare sulla Sardegna le navi tragetto in modo che il mezzo terrestre (semirimorchio o trailer) si imbarcasse direttamente sulla nave per rendere il trasporto marittimo a tutti gli effetti analogo a quello terrestre.

Gli armatori pensarono di utilizzare lo stesso sistema anche per collegare il Nord Italia con la Sicilia in modo che si risparmiassero gli oltre 1.000 km. di traporto terrestre.  L’idea era brillante perché decongestionava le autostrade, limitava incidenti, inquinamento e consumi energetici; però non era economicamente conveniente perché allora le navi erano piccole, lente, inaffidabili e il servizio non garantiva regolarità e tempi di resa competitivi. Preso atto dell’utilità generale del progetto, su richiesta degli armatori, il Governo previde correttamente un incentivo –mare bonus– per sostenere l’iniziativa.

I risultati sono stati brillanti, ma è passato quasi mezzo secolo e siamo arrivati alla situazione odierna radicalmente cambiata. Le navi sono grandi, veloci ed affidabili, i volumi sono elevati per cui il servizio è continuo con più partenze giornaliere e i tempi di resa via mare sono inferiori a quelli via terra perché la nave viaggia 24 ore su 24 per 7 giorni settimana e normalmente in Mediterraneo il percorso marittimo è più breve di quello stradale che segue l’arco della costa.

Costi e consumi del trasporto marittimo sono diventati drasticamente inferiore a quelli del trasporto terrestre. Pochi dati possono evidenziare il fenomeno; una nave può portare 500 mezzi terrestri (trailer) quindi si deve confrontare quanto costa far viaggiare 500 trailer o una nave. I costi sono determinati dall’incidenza di investimenti, consumi energetici e mano d’opera; i 500 trailer (ralla) costano d’acquisto circa (500*100 k €) 50 milioni di €, utilizzano (500*500) 250.000 cavalli e impiegano 500 autisti (escludendo il secondo autista).

La nave, che in alternativa li può trasportare, fruisce di una riduzione dei costi percentualmente così valutabile: – investimento, 80 miliardi, ma per la maggiore vita media della nave e la minore manutenzione il costo annuale si riduce all’90% – consumo energetico, 44.000 hp, riduzione al 17%, – occupazione, 20 marittimi, riduzione al 4%. Facile capire che l’utilizzo della nave fa più che dimezzare i costi, migliora il servizio e rende inutile il contributo statale perché tutto il traffico dovrebbe viaggiare naturalmente per mare con grandi vantaggi generali.

Non è così; la percentuale del traffico in modalità marittima non supera il 50% del totale e gli armatori continuano a chiede ed ottenere il contributo del mare bonus. Il traffico in questione, già molto elevato, può infatti solo limitatamente crescere a causa della strozzatura portuale (insufficienza della produzione pubblica); agli armatori però va bene così perché incassano un contributo, hanno un surplus di domanda che facilita l’aumento dei noli ed evitano di aprire la strada a nuovi concorrenti oggi impediti dai vincoli portuali. Lo Stato, che non dispone una sua strategia autonoma ma utilizza quella dei privati, continua così a pagare e a non risolvere il problema.

Funzioni democratiche. Fino qui abbiamo parlato dell’aspetto tecnico organizzativo, ma esiste anche il ben più ampio problema democratico; se per ipotesi il meccanismo potesse funzionare, e nelle dittature è facile riscontrare una maggiore continuità e coerenza, il Governo agirebbe autonomamente senza più nessun controllo della collettività rimasta priva di potere.

La collettività infatti non avrebbe la conoscenza necessaria, neppure per un giudizio sommario, non essendo inserita in nessun meccanismo produttivo; non avrebbe quindi nessun potere di condizionamento e inevitabilmente le sue necessità sarebbero ignorate prevalendo quelle del produttore, pubblico o privato non cambia. Nasce così la dittatura con tutti gli effetti collaterali conosciuti. La mancanza di questo strumento di gestione economica pubblica apre l’attuale alternativa tra due soluzioni ugualmente drammatiche: una dittatura inaccettabile ma con un minimo di efficienza pubblica, una democrazia totalmente incapace di gestione economica pubblica.

Abbiamo già visto che una funzione economica pubblica non era prevista né auspicata nella formulazione originale; quindi non risulta ed è oggi la drammatica contraddizione per cui la parte principale e strategica della produzione, non può essere gestita dal capitalismo privato, né dalla struttura pubblica mancando degli strumenti di conoscenza/potere necessari. Si tratta della parte di produzione maggioritaria – 70% che è strategicamente determinante riguardando infrastrutture, istruzione, sanità, equilibrio urbano e tutti i problemi internazionali. 

Siamo cioè in grado di gestire e ottimizzare, grazie al mercato, le singole attività, cioè il particolare, e ci sfugge l’insieme; curiamo con attenzione la parte di produzione che rappresenta un 30% del totale, ma non possiamo affrontare i problemi generali dell’intero sistema, quali guerra in Ucraina, migranti, riscaldamento globale, disastro ecologico, che abbandonati a sé stessi, preparano progressivamente la distruzione della nostra società. Se la foresta brucia è necessario spegnere l’incendio, mentre è poco produttivo occuparsi del singolo albero la cui vita è condiziona dall’incendio.

Non potendo affrontare il problema generale si è fatta la scelta, cara alla burocrazia, di perdersi in mille controlli di dettaglio per supplire alla impossibilità di un controllo generale sui risultati; si sono così imposti troppi controlli comportamentali solo formali, incapaci di risultati reali, spesso negativi sia perché deresponsabilizzano i soggetti coinvolti sia perché incompatibili con l’efficienza produttiva fatta di casualità, intelligenza e libertà. Questa è diventata anche la principale, defaticante e spesso inutile, attività del Governo.

Così viene gestito senza controlli reali un complesso meccanismo economico che coinvolge la parte dominante della produzione (Pil) forse il suo 70% che in cifre per l’Italia è 1.400 miliardi anno pari a 2.000 € pro capite mese; nessuno infatti, specie i politici, ha gli strumenti per cogliere le interrelazioni che condizionano l’intero sistema; questa situazione non è modificabile fino a quando mancherà una catena gerarchica/conoscitiva, come l’azienda, che fornisca a ciascuno la conoscenza e il potere necessario a capire e ottimizzare l’attività di propria competenza.

Qualsiasi analisi economica di conseguenza rimane limitata e quando la struttura pubblica si interessa allo sviluppo o al salvataggio di una fabbrica non esamina il ruolo produttivo che essa può svolgere nel sistema Paese ma solo l’occupazione che si può salvare o creare, secondo la corretta logica del “consulente”. Anche per l’acciaieria di Taranto si è discusso di posti di lavoro non della necessità dell’acciaio; i primi si vedono e riguardano l’oggi di persone specifiche presenti, la seconda interessa il domani, non appare, è poco misurabile, interessa una collettività lontana, non in grado di valutare e capire.

Ne deriva che, mancando nell’attuale struttura politico/sociale della possibilità di capire le interconnessioni economiche, politici e opinione pubblica devono necessariamente ricorrere a slogan quasi sempre sbagliati ma semplici e comprensibili da tutti. Diventa quindi quasi impossibile la crescita del benessere collettivo, dell’equità distributiva e della funzione democratica.

Questo meccanismo ostacola la crescita di responsabilità e conoscenza ed è la tomba di qualsiasi partecipazione democratica; alimenta il populismo e l’opposizione alla struttura pubblica, trasformando una legittima protesta per la disfunzione esistente, in un rifiuto in toto della struttura pubblica che invece è lo strumento necessario per superare questo momento oggettivamente difficile. Vedremo nel prossimo capitolo alcune delle principali conseguenze negative di questa pesante disfunzione.

CAP. IV – LA ROTTURA DEL MECCANISMO ISTITUZIONALE

Preconcetti culturali. L’evoluzione tecnologica potrebbe aprire ampie possibilità di benessere collettivo e di libertà, ma stiamo perdendo questa meravigliosa possibilità perché presuppone un più ampio ruolo della mano pubblica e il nostro impianto istituzionale è privo degli strumenti necessari a svolgerlo. Manca infatti un soggetto pubblico in grado di gestire le strategie economiche del Sistema Paese, visto in una visione unitaria; diventa così problematica la crescita e l’equità distributiva, mentre si facilita lo sviluppo delle dittature.

Tale mancanza è evidente e facilmente rilevabile, eppure nessuno vuole vederla e quasi tutti si rifiutano perfino di affrontare il problema attribuendo le carenze pubbliche non a una disfunzione strutturale che produce le ferree necessità negative, ma all’incapacità degli uomini preposti. Si pensa che basterebbe sostituire gli attuali politici e governanti incapaci, per ritrovare lo spazio di felicità e benessere; l’inadeguatezza degli uomini coinvolti non è invece la causa ma la conseguenza del meccanismo istituzionale che porta a selezionare e premiare, gli uomini e le scelte peggiori.

È emblematica la sfida in America fra Tump e Biden dove la campagna elettorale di quest’ultimo si basa sulla necessità di difendere la democrazia che potrebbe essere messa a rischio dalla vittoria del rivale. Biden ha ragione ma è ingenuo non capire che il rischio nasce dal non funzionamento del meccanismo democratico che genera lo scontento su cui fa leva Trump. Difficile in questa situazione far trionfare la democrazia e il rischio della vittoria di Trump è molto reale.

Certamente il non vedere è legato alla difesa di interessi e privilegi consolidati, non più compatibili con la nuova realtà; ogni cambiamento infatti insidia i ruoli esistenti ed è naturalmente osteggiato specie se la struttura esistente ha dato fino a ieri brillanti risultati. In questo caso però c’è qualcosa di più ed è di tipo culturale, perché Infatti molti diritti esistenti, diventati privilegi, sono oramai così incompatibili con l’attuale realtà che non avvantaggiano più neppure gli stessi privilegiati.

È una situazione analoga a quella dell’organizzazione portuale italiana negli anni ’80. I portuali italiani godevano di un diritto di esclusiva sul lavoro, sancito dal Codice della Navigazione del ’42; quando è stato sancito era un diritto dovuto ed economicamente corretto, ma a partire dagli anni ’60 è diventato incompatibile con le nuove necessità dell’evoluzione tecnologica. I porti italiani hanno così perso progressivamente traffico, rendendo necessario il cambiamento; è iniziato uno scontro coi i portuali in cui sono stato coinvolto.

L’opinione corrente valutava la situazione non modificabile, specie a Genova, perché la Compagnia portuale forte all’origine di 8.000 uomini e di una efficiente organizzazione quasi militare non avrebbe mai rinunciato ai suoi privilegi e il cambiamento non poteva esserle imposto. Il privilegio, sempre più anacronistico, arrecava però un danno crescente alla collettività che superava di gran lungo i vantaggi degli specifici lavoratori.

Il leader dei portuali, il mitico Console Batini, ha capito che la situazione non era più difendibile; non esistevano alternative e che quindi doveva perdere se voleva vincere. Così è stato e nell’estate del ’92 dopo lo scontro finale, è stata sancita con la legge di riforma 84/94, la nuova organizzazione portuale che ha fatto esplodere i traffici, aumentati in 7 anni di 5 volte (500%); è cresciuto il lavoro e i portuali che in precedenza si erano ridotti a 500 uomini hanno raddoppiato gli organici.

In modo analogo oggi il costo per la collettività di questa disfunzione organizzativa è elevatissimo e coinvolge tutti anche i privilegiati; nessuno però sembra rendersi conto che questa situazione non può reggere e il cambiamento si impone. Prima di esaminare i costi dell’inefficienza esaminiamo preconcetti e vincoli culturali che accentuano l’incapacità di capire e condizionano il dibattito generale.

Premettiamo che coinvolgere il proletariato nella lotta di classe per ottenere un diverso inserimento nella gestione della struttura pubblica ha imposto una grande semplificazione espositiva per permettere che una più ampia fascia della collettività potesse capire. Questa semplificazione ha rappresentato il passaggio obbligato che ha permesso la spallata iniziale della lotta di classe per ottenere il suffragio universale e la democrazia della seconda metà del ‘900.

Il potere acquisito e la sua diffusione avrebbero dovuto sviluppare la conoscenza necessaria per permettere le più complesse valutazioni e azioni successive. È successo il contrario la conoscenza collettiva si è unificata ai livelli meno elevati e ha contributo pesantemente a impedire di capire l’evoluzione in corso che imponeva strategie diverse mentre la vecchia impostazione diventava sempre più anacronistica; si sono ipotizzate solo piccole migliorie costituzionali irrealizzabili e parzialmente inutili o negative.

Il salto tecnologico infatti era elevatissimo e imponeva una rivoluzione economica/sociale e una forte discontinuità nel meccanismo istituzionale. Quando nel ‘700 l’Illuminismo francese ha ipotizzato un nuovo potere pubblico al servizio della borghesia ha ipotizzato, per renderla vincente, la tripartizione dei poteri e non l’assemblea dei baroni che avrebbe cambiato ben poco e sarebbe stata anche irrealizzabile.

Marx è stato, e tuttora è, anche se inconsciamente, la base della nostra lettura economico/sociale; le sue teorie nel suo momento storico, erano sempre corrette ed hanno permesso la grande evoluzione verso la democrazia. Oggi però utilizzate in una realtà completamente cambiata, sono uno dei principali elementi (o giustificazioni) che impediscono di capire. Vediamo i vari punti.

Teoria del plus valore. Abbiamo già sottolineato la validità delle teorie marxiste nel contesto di riferimento; l’errore nasce dall’uso improprio che oggi ne facciamo in una situazione completamente variata. Il principale equivoco nasce dalla teoria del “plus valore” e dalla conseguente valutazione della produzione come “farina del diavolo”. Forse non è sbagliato pensare, che la teoria del plus valore non fosse il nucleo della logica marxista ma si è resa necessaria per semplificare e divulgare il suo reale contenuto.  Marx però aveva detto “proletari (e non lavoratori) di tutto il mondo unitevi”

Marx aveva infatti capito che le risorse economiche si ripartiscono in funzione del potere, cioè del livello di diritti dei soggetti coinvolti; era quindi necessaria la lotta di classe per riconoscere al proletariato i diritti negati e superare l’inaccettabile situazione sociale. Il concetto era corretto, ma non di facile comprensione; più facile sostituirlo con la più comprensibile teoria del “plus valore” – “non ti pagano una parte del lavoro fatto”. L’aspetto pratico era identico, ma la logica teorica era errata, spostava lo sfruttamento del livello politico (lotta di classe) a quello tecnico-aziendale (lotta sindacale).

La prassi non veniva falsata perché esisteva l’identità fra proletario/lavoratore da una parte e borghese/padrone dall’altra e la lotta sindacale poteva diventare, come è stata, il braccio armato per rivendicare i diritti dei proletari. Il posto di lavoro dove venivano ammassati migliaia di proletari/lavoratori, spesso in condizioni di grande disagio, era il posto ideale per far emergere la forza delle masse e imporre progressivamente i diritti del proletariato.

Era anche corretto considerare la produzione come “farina del diavolo”, perché non solo non serviva al proletariato, mantenuto a livello di pura sussistenza, ma ogni aumento di produttività (maggiore efficienza), non aumentava la produzione e il benessere collettivo ma la disoccupazione ed espelleva dal ciclo produttivo parte crescente del proletariato, costretto ad emigrare. Fino a oltre la metà del ‘900, lotta sindacale, sinistra e sindacati sono stati la forza dirompente dell’evoluzione positiva che costruiva la democrazia e il benessere collettivo.

Questa interpretazione permetteva una grande semplificazione interpretativa perché esaminava solo metà del ciclo economico, cioè il momento produttivo (l’azienda) e tralasciava l’altra metà della distribuzione (mercato), cioè il momento in cui il salario si trasformava in tenore di vita. Esaminava solo il momento più facile da capire perché non prendeva in esame la più complessa visione unitaria costituita da produzione e utilizzo (consumo), dove il salario si trasformava in potere d’acquisto, che era determinata dalle complesse logiche dell’economia. Esaminando solo il momento produttivo (l’azienda) tutto si semplifica; l’interesse del lavoratore consiste nell’aumento dei diritti e della remunerazione.

Viceversa l’evoluzione economico/sociale ha progressivamente mutato la situazione e il benessere collettivo e l’equità distributiva sempre meno dipendono dal momento produttivo (l’azienda), e sempre di più dall’intero meccanismo produttivo/distributivo da cui deriva il reale tenore di vita. Per quantificare quanto detto vediamo i valori in gioco; rispettando la legge, i possibili vantaggi economici a livello aziendale sono quantitativamente limitati perché difficilmente si possono, pur con enormi difficoltà, raddoppiare i redditi dei livelli bassi della piramide aziendale, che quindi al limite possono passare da 1 a 2. Nella seconda metà del ‘900, invece l’aumento di risorse prodotto dall’ottimizzazione produttiva è stato di un altro ordine di grandezza, valutabile in 10 volte, tale quindi da far passare il reddito da 1 a 10.

Questa forte crescita (aumento del 1.000%) ha reso possibile gli elevati livelli economici e sociali mai prima raggiunti; quindi in sintesi, allo stato attuale, le battaglie sindacali aziendali possono far crescere il tenore di vita non più del 10%, mentre, a parità di diritti, l’altro 90” deriva dall’efficienza produttiva. L’ulteriore aumento delle risorse economiche, di nuovo possibile grazie alla rivoluzione elettronica, dovrebbe essere di altre 10 volte (1.000%), portando l’aumento totale di risorse dovuto all’efficienza produttiva a ben 100 volte (10.000%), riducendo così ulteriormente il peso dello scontro aziendale capace ormai di rappresentare solo l’1% del risultato raggiunto e raggiungibile.

Ne deriva quindi che la produzione, lungi da essere come nell’Ottocento la “farina del diavolo”, al servizio della sola borghesia, diventa l’elemento portante della rivoluzione sociale e lo strumento necessario per rendere reali i diritti acquisiti. La lotta sindacale diventa invece sempre più un elemento marginale e continua ad essere utilizzata perché mancano gli strumenti alternativi necessari a regolamentare le strategie produttive del Sistema Paese. Il problema sociale è ormai solo marginalmente determinato a livello aziendale dalla dialettica padrone/lavoratore, secondo la teoria del plus valore; sempre di più è prevalente la logica del meccanismo produttivo basata sulla dialettica produttore/collettività utente.

Grave è stato trasformare la lotta di classe in lotta sindacale, perché falsa totalmente la chiave interpretativa della realtà; la contraddizione è però esplosa non subito ma lentamente al cambiare delle condizioni di riferimento. Inizialmente, e per un lungo periodo del dopo guerra, grazie al suffragio universale, i paesi avanzati hanno incominciato a costruire le prime democrazie e lotta di classe e sindacale si sono integrate in un abbinamento virtuoso raggiungendo insperati risultati positivi. La lotta di classe riconosceva i diritti dei lavoratori che si trasformavano in pressione sindacale, aumento di salari, aumento di domanda globale, selezione delle strutture produttive più efficienti; cresceva tutto: diritti, liberta, Pil, benessere collettivo ed equità distributiva.          

L’elemento portate però era la crescita dei diritti (lotta di classe), che ha utilizzato la lotta sindacale come forza di rottura per riconoscere i diritti negati dei proletari; è stato così possibile rendere progressivamente reale la scritta delle aule dei tribunali “la legge è uguale per tutti”. È finita la fase del proletariato come classe priva di diritti; questo non significa il raggiungimento dell’uguaglianza sociale ma solo l’eliminazione, almeno in buona parte, del primo vincolo che la rendeva impossibile, legittimava qualsiasi abuso e impediva l’equità sociale.

I diritti acquisiti hanno permettono di andare oltre e traguardare un meccanismo produttivo consono alla nuova realtà e capace di trasformare i nuovi diritti da formali a reali. Questa nuova fase esula dalla dimensione aziendale e riguarda il complesso campo dell’economia, coinvolgendo l’intero sistema produttivo. infatti l’attuale livello di diritti, ovviamente rispettando la legge, ha saturato i margini ottenibili a livello aziendale, ed è diventato sempre più determinante l’efficienza produttiva del sistema Paese e i criteri distributivi delle risorse disponibili. Tutti elementi che esulano dalla dimensione aziendale, coinvolgono l’operato della struttura pubblica e necessitano di un meccanismo produttivo idoneo a raggiungere gli elevati obbiettivi sociali, che sono diventati possibile e necessari.

Se tale strumento manca le istanze ugualitarie diventano semplici utopie, ingannano la collettività e sono pericolose perché spesso legittimano i peggiori abusi. Abbiamo già ricordato la proprietà pubblica dei mezzi di produzione imposta dalla rivoluzione russa che sembrava il massimo dell’equità distributiva, ma non era compatibile con il meccanismo produttivo ed ha prodotto dittatura e miseria. Anche i diritti acquisiti stanno oggi perdendo di contenuto a causa dell’incapacità dell’economica di renderli reali. Continuare a inseguire la maggiore equità distributiva a livello aziendale genera una lotta contro i mulini a vento e legittima una prassi spesso contraria all’interesse della collettività.

Questo avviene soprattutto nei settori privi di mercato e come tali prevalentemente delegati alla mano pubblica. Infatti il lavoratore, non più proletario, è di fatto un produttore e come tale i suoi interessi contrastano con quelli prioritari della collettività. Fino a quando le istanze del proletario costituivano lo strumento della lotta di classe erano sempre legittime, quando diventano quelle del produttore devono invece essere subordinate a quelle prioritarie della collettività/utente. Cosa che spesso non avviene e, specie quando manca il mercato, inevitabilmente prevalgono quelle del lavoratore/produttore, creando un danno collettivo.

La rivoluzione elettronica inoltre, ironia della sorte, intacca anche i privilegi degli specifici lavoratori, quali i dipendenti pubblici. Infatti quando il lavoro era manuale, ripetitivo, faticoso ed alienante (tipo catena di montaggio), una situazione diversa nel settore pubblico, più remunerata e meno stressante, poteva costituire non solo un privilegio ma anche l’ipotesi di una possibile più avanzata organizzazione produttiva. Il lavoro odierno è poco faticoso e ripetitivo, però richiede conoscenza, coordinamento, interdipendenza e una gerarchia condivisa; tutte caratteristiche che appartengono all’organizzazione aziendale e sono quasi incompatibili con la logica sindacale. Senza queste caratteristiche si riduce drasticamente produttività e capacità produttiva e, specie nei servizi, si impedisce lo svolgimento in maniera adeguata, anche in settori chiave quali la sanità.

Il lavoro infatti, in mancanza di un’organizzazione funzionante, produce poco e si svolge in una continua emergenza che richiede sempre nuovi interventi correttivi, idonei a tamponare senza risolvere, alimentando una generale frustrazione, ampliata dalle ripetute proteste, a volte violente, dell’utente insoddisfatto. La bassa produttività impone un’occupazione sempre maggiore, che porta un modesto miglioramento ma impegna nuove risorse, difficili da reperire.

Così il pubblico impiego, per chi lo svolge seriamente, è diventato un lavoro sottopagato e stressante spesso peggiore rispetto a quello di un’azienda privata che opera, rispettando i diritti dei lavoratori previsti dalla legge.  Assistiamo in questo periodo alla fuga di medici e infermieri dagli ospedali pubblici perché le condizioni lavorative sono frustanti e poco appaganti.

Le contradizioni della sinistra: ripetiamo che fino a metà del ‘900 la lotta sindacale era lo strumento della lotta di classe con la sinistra e i sindacati che, rivendicando i diritti del proletariato, spingevano l’evoluzione democratica. Dopo la guerra l’acquisita parità di diritti ha rovesciato i termini di riferimento: il lavoratore è diventato un produttore le cui necessità devono essere compatibili con quelle prioritarie della collettività/utente perché l’efficienza produttiva è diventata l’elemento portante dello sviluppo occupazionale e del benessere collettivo.

Le condizioni lavorative derivano fondamentalmente dal livello dei diritti, quindi facili da regolamentare ed oggi, applicando un regolare contratto di lavoro, sono condizioni migliorabili ma accettabili. I contratti di lavoro, per una prassi consolidata dai vincoli ideologici/organizzativi, sono discussi dai sindacati utilizzando lo scontro sindacale, ma questa logica ha perso parte del suo significato e non è stata superata perché manca nel nostro impianto istituzionale uno strumento democratico capace di elaborare le strategie economiche del sistema Paese.

Il livello dei salari infatti è un elemento strategico dello sviluppo economico e riguardano l’intera collettività, non i singoli settori, per cui ha poco senso che una categoria, grazie a una sua maggiore forza contrattuale, goda di condizione migliore delle altre; sarebbe più corretto che un’Autorità Pubblica, avendo gli strumenti e la conoscenza necessari, fissi su base democratica un contratto di lavoro valido per tutti, modificabile solo in aumento. Discorso analogo del salario minimo

Comunque il sistema attuale anche se ancora formalmente alimentato dalla lotta sindacale è accettabile; il vero problema è invece la crescente incapacità dell’attuale meccanismo economico di rendere universali le situazioni regolari ed impedire che diventino isole felici circondate da una maggioranza di lavoratori senza diritti né libertà. Non si tratta più di regolamentazione (diritti) ma di meccanismo produttivo che non assolve al suo ruolo per la nostra incapacità di capire come funziona e quali interventi possano garantire un’evoluzione virtuosa.

Abbiamo visto che il risultato dello scontro sindacale può condizionare solo su un 10% del tenore di vita e che la rivoluzione elettronica degli ultimi 50 anni potrebbe ridurre tale percentuale all’1% del totale. La lotta sindacale ha perso di significato pratico a livello economico, per cui la sinistra mantiene una funzione solo nella difesa dei diritti acquisiti, ma è una funzione politica e non aziendale, ed è necessaria per contrastare l’inaccettabile posizione della destra. Rimane comunque una strategia di difesa per frenare il degrado ma senza spazi di sviluppo.

Anche il modo di valutare il lavoro è errato a livello produttivo; infatti il lavoro non è un obbiettivo ma una necessità perché l’obbiettivo economico è massimizzare la conoscenza e il benessere collettivo minimizzando l’impegno lavorativo, come è avvenuto nella II metà del ‘900. Il lavoro è determinante per questo risultato ma solo come strumento e non come fine; l’errato angolo di visuale falsifica quasi tutte le valutazioni e privilegia nella maggioranza dei casi, il lavoro passato e non quello futuro.

Il lavoro inoltre svolge un ruolo determinante a livello della conoscenza individuale perché la conoscenza dell’uomo nasce dal “fare” e questa funzione culturale spesso è, o dovrebbe essere, più condizionante di quella produttiva; l’interpretazione marxista del lavoro come puro momento di sfruttamento, corretta nell’Ottocento, continua a sottovalutare questa importante variabile.

L’errata posizione, molto radicata e derivata dall’errata interpretazione marxista ancora dominante, permette però risposte facili e quasi automatiche. Sono purtroppo le uniche possibili in una realtà economica complessa ma tuttora priva dei necessari strumenti conoscitivi. Di fatto però diventa spesso la difesa di interessi attuali e presenti (i posti di lavoro) contro quelli ben maggiori ma incerti e futuri di una collettività assente e impossibilitata a capire. 

La vera sfida che attende la sinistra è quindi stimolare l’efficienza produttiva attraverso una diversa strategia capace di modificare la situazione economico/sociale e garantire conoscenza e benessere diffuso in una società equa e governata democraticamente. L’obbiettivo sarà però difficilmente raggiungibile senza che la struttura pubblica venga dotata di uno strumento capace di traguardare strategie economiche e coerenze produttive del Sistema Paese; senza superare questo vincolo si rischia il crollo dell’intero sistema.

In attesa sarebbe comunque logico cercare di limitare le azioni che, in difesa del lavoratore, peggiorano la situazione generale della collettività. Tale meccanismo perverso condiziona particolarmente i settori gestiti dalla mano pubblica perché non controllabili dal mercato e quindi dove la collettività/utente è più debole. Oltre allo spreco di risorse, pesa il danno sociale perché la mancanza di servizi penalizza principalmente le classi deboli. La collettività/utente non teorizza ma sconta sulla propria pelle i disagi per code, disguidi, ritardi, dovuti ai privilegi di pochi.

Il maggior ruolo economico della struttura pubblica, imposto dall’evoluzione, ha reso la prassi di sinistra sempre più contradittoria rispetto agli obbiettivi da raggiungere e dai risultati elettorali infatti risulta che la sinistra è minoritaria pur difendendo ufficialmente la base maggioritaria della piramide sociale. Priva infatti di una strategia compatibile con la nuova realtà, risulta ovunque perdente e contradditoria; votano infatti a sinistra i quartieri agiati e a destra le periferie. La distinzione destra/sinistra a livello economico è caduta, se non rovesciata, e la residua tenuta della sinistra deriva dalla legittima paura della perdita dei diritti che caratterizza il prevalere delle destre.

Equivoco conoscitivo. L’equivoco interpretativo della sinistra è solo la punta dell’iceberg di una generale errata chiave interpretativa della realtà che condiziona e limita la spinta evolutiva. Il generale rifiuto a ripensare l’attuale impianto istituzionale e la nostra prevalente lettura falsata ci spinge a soffermarci sulle ragioni storiche che hanno prodotto questo assurdo condizionamento. Nell’Ottocento una piccola minoranza, la borghesia, è arrivata al potere in nome di égalité, fraternité, liberté, ma ha mantenuto la stragrande maggioranza della popolazione, il proletariato senza diritti, a livello di pura sussistenza.

Abbiamo visto che la teoria marxista del “plus valore” ha portato la lotta di classe a livello aziendale, come scontro padrone-lavoratore, quindi tecnico e non politico, borghesia-proletariato. La lotta di classe diventata così sindacale effettuata a livello aziendale ha però semplificato radicalmente la complessità produttiva. il divario fra complessità della realtà e semplicità della chiave interpretativa ha permesso la generale partecipazione collettiva perché tutti potevano essere coinvolti non occorrendo conoscenze specifiche. Tutti erano uguali e in grado di fornire risposte coerenti ai problemi sociale; erano valutazioni inizialmente corrette diventate in seguito errate, ma chiare e semplice che però riducevano la conoscenza collettiva e la capacità di identificare la crisi attuale.

L’esame limitato a metà del ciclo, facendo riferimento al solo momento produttivo, porta come automatica conseguenza che il maggior benessere del lavoratore deriva dalla crescita di diritti, occupazione e remunerazione; non servono ulteriori spiegazioni e diventa inutile analizzare la parte restante, che coinvolge la logica economica, dialettica e complessa.

Questa spiegazione semplificata, facile e comprensibile, sembrava confermata dai risultati pratici; crescevano infatti diritti e benessere diffuso raggiungendo risultati insperati, si consolidavano le organizzazioni politiche e i sindacati ad esse collegati. Tutto sembrava confermare che fosse la strada corretta e l’unica possibile, invece i risultati ottenuti derivavano dalla lotta di classe di cui quella sindacale era il provvisorio strumento; la logica interpretativa è caduta quando ottenuti i diritti è diventato determinante trasformali in tenore di vita.

 È nato però nel frattempo il pensiero unico dominante in cui i problemi economico/sociali si risolvono a livello aziendale difendendo occupazione e salari; pensiero semplice, comprensibile da tutti, non richiede incerte interpretazioni e garantisce il potere a una significativa fetta della popolazione, mantenendo lo stato quo. 

La forte crescita economica prodotta dal cambiamento politico e dall’evoluzione tecnologica, ha fatto crescere produzione e benessere collettivo, nascondendo lo spreco di risorse e di forza lavoro dovuti a quest’errata interpretazione, ha impedito di evidenziare la disfunzione. Sarebbe stato necessario valutare il reale livello di sviluppo possibile, ma non era possibile mancando nella struttura pubblica uno strumento per misurare e valutare strategie, logica produttiva globale e risultati raggiunti e raggiungibili.

Si aggiunga che nel frattempo, per l’evoluzione tecnologica, si era drasticamente ridotta la parte di popolazione (valutata a un 30% del totale) impegnata in un lavoro che, grazie all’ottimizzazione produttiva, produceva conoscenza, mentre l’altro 70% non aveva né gli strumenti né la conoscenza per capire e valutare un complesso meccanismo economico. Si è così continuato a focalizzare solo il rapporto aziendale padrone/lavoratore che, come abbiamo visto, può determinare oggi il 10% del benessere collettivo; percentuale destinata a ridursi all’1%, utilizzando le nuove possibilità di sviluppo.

I nodi sono venuti al pettine quando la rottura dell’organizzazione pubblica e i suoi limiti strutturali hanno prodotto lo spreco di risorse e le politiche contradittorie, che impedivano il circolo virtuoso, iniziando a riduce sviluppo, diritti, libertà ed equità; è nata la necessità del cambiamento, ma richiedeva una discontinuità radicale per far saltare privilegi, conoscenze acquisite, certezze consolidate, soprattutto la folle convinzione, tanto consolatoria, che la valutazione dominante è corretta e non serve uno sforzo conoscitivo ma basta aspettare l’automatico ritorno dell’equilibrio. Ha prevalso così la voglia di non vedere, come già era successo negli anni ’20 e ’30 del ‘900; la drammatica esperienza di allora dovrebbe imporci un radicale cambiamento comportamentale.

Conseguenze economiche. Riassumendo la parte strategica e principale, quasi il 70% della produzione, è affidata alla mano pubblica, la collettività manca però di reali strumenti di controllo e per una parte anche della possibilità di esprimere le proprie necessità. Difficilmente si poteva costruire uno strumento più idoneo a scatenare la “tempesta perfetta”; non dovremmo meravigliarci della crisi economica quanto della residua capacità del sistema di reggere. Solo l’immenso sviluppo tecnologico/produttivo raggiunto ha finora evitato il collasso.

L’elemento più dirompente è comunque a livello conoscitivo, perché la mancanza di in meccanismo di controllo reale impedisce l’ottimizzazione produttiva e quindi ostacola l’aumento di risorse e di conoscenza. La mancanza di conoscenza a livello dei decisori pubblici inoltre moltiplica le disfunzioni e crea danni ben maggiori perché inquina tutto il dibattito politico/culturale. Sia i decisori pubblici che l’indistinta collettività perdono la capacità di valutare le scelte produttive e quindi inevitabilmente si adeguano sia alla posizione dei privati coinvolti che, pur in conflitto d’interesse, hanno una maggiore conoscenza specifica, sia agli slogan semplificati che condizionano i sondaggi e rappresentano il punto più irresponsabile dell’opinione pubblica. La struttura pubblica che dovrebbe contrastare il potere dei privati e gli squilibri di una collettività non preparata, diventa invece in entrambi casi il moltiplicatore delle peggiori istanze.

Si forma una classe formata da politici e burocrati, la dittatura diffusa che gestisce la mano pubblica, ma al suo interno esistono pochi “posti di guida” e molti punti di comando privi dei necessari strumenti di conoscenza; il soggetto pubblico non sa quindi cosa conviene fare e non ha gli strumenti né la convenienza a farlo. Così senza difficoltà promette tutto a una collettività incapace di valutare necessità, strumenti realizzativi e credibilità dei risultati raggiungibili e raggiunti. Le promesse non mantenute spingono a chiedere di più, seguendo chi lo promette non nel futuro, poco attendibile e valutabile, ma nel presente.

Nasce una generale difesa del presente ottenuta penalizzando il futuro, con debito pubblico, squilibri urbanistici, idraulici ed ecologici. Le disfunzioni si accumulano e bruciano lo spazio del domani. Si crea soprattutto un’inefficienza globale origine dell’immenso divario fra la situazione reale e quella possibile, che è l’origine di tutti gli squilibri. In questo contesto anche la corruzione, pur grave a livello morale, salvo casi limiti, è economicamente poco significativa. Può riguardare il 2% – 3% del costo di produzione mentre ben più grave è il danno del non fare, o fare male, che facilmente può produrre un aumento generale di costo del 3 -400% forse anche al 1.000%. come spesso è avvenuto a Genova.

Caso Genova. Per meglio capire che la causa delle disfunzioni non deriva tanto dall’incapacità degli uomini coinvolti quanto dai meccanismi decisionali perversi della struttura pubblica, esaminiamo un caso specifico che evidenzia le vincolanti forze in gioco e la logica del loro comportamento. Vediamo il caso Genova, fortunatamente esempio limite, quasi emblematico del condizionamento negativo della struttura pubblica sullo sviluppo economico/sociale. Città come Milano soffrono meno di questi condizionamenti; non a caso la conoscenza di ciò che scrivo mi deriva proprio dall’esperienza genovese. Sono condizionamenti che comunque coinvolgono, anche se in modo meno patologico, tutte le situazioni.

Non è ovviamente un discorso di logistica, mio campo specifico, ma è necessario fornire alcune informazioni per capire la logica comportamentale. Viviamo nel secolo della logistica e Genova ha una delle migliori posizioni geografiche per servire l’Europa. Fino a ieri però aveva, rispetto ai porti concorrenti del Nord Europa, l’handicap della mancanza di spazi, ma oggi la situazione si è rovesciata perché mancanza di spazio è stata più che bilanciata perché loro hanno insufficienti fondali ed agibilità nautica. Genova quindi potrebbe diventare uno dei principali porti europei realizzando il centro logistico del Sud Europa, con forte sviluppo tecnologico e occupazionale. La soluzione tecnica per raggiungere l’obbiettivo implica però un salto tecnologico/dimensionale non drammatico ma non così facile da capire e immaginare, specie non volendo capire.

La crisi logistica italiana, in parte causata da Genova, danneggia il sistema Paese però premia politici e imprenditori locali. Infatti l’insufficiente potenzialità portuale crea un collo di bottiglia che impedisce di soddisfare una parte della domanda di trasporto (un 20% del traffico proveniente da Suez, raggiunge il Nord Italia attraverso i porti del Nord Europa); si crea così un onere aggiuntivo per il Nord Italia ma un’elevata rendita di posizione per gli operatori locali (aumento percentuale degli utili di 20 volte rispetto ai valori standard). Parallelamente il problema logistico non risolto, legittima nuovi investimenti pubblici che necessitano risorse, e garantiscono nuova occupazione e potere ai politici.

Politici e imprenditori hanno quindi lo stesso obbiettivo di attingere fondi statali senza però risolvere i problemi logistici, che persistendo ne garantiscono i vantaggi; la soluzione è oggettivamente complessa e quindi è “legittimo” sbagliare. I principali problemi sono due: primo – collegamenti con il Nord Italia scavalcando l’Appennino, secondo – porto, l’aumento degli spazi e delle acque portuali a causa della cresciuta della dimensione nave. Entrambe i problemi sono stati affrontati, ma le soluzioni adottate sono le meno utili e più costose.

Attraversamento dell’Appennino: è necessario realizzare una galleria di notevole lunghezza dai 40 ai 50 km. – il terzo valico; si è previsto di abbinare treno veloce passeggeri (indispensabile) con il traffico pesante (scarsamente utile), ottenendo quasi un raddoppio dei costi. La morfologia dietro a Genova è inoltre molto particolare: a Ovest è conformazione alpina (stabile) a Est Appennino (instabile), al centro una stretta faglia (imprevedibile). Il terzo valico è in costruzione nella faglia centrale, il punto più instabile; il risultato è che i lavori vanno avanti ormai da 13 anni, si parla di terminare nel’30 ma continuamente la data slitta; si sono così forse triplicati tempi e costi dell’opera.

Porto: servono maggiori spazi operativi e lo spostamento al largo della diga foranea per facilitare le manovra delle grandi navi; la soluzione scelta non prevede un significativo aumento di spazi portuali ma solo lo spostamento della nuova diga che viene prevista su fondali di 52 metri, che rendono problematica la sua realizzabilità tecnica e un aumento di almeno 2 – 3 volte costi e tempi. Un progetto alternativo ha previsto di spostare la diga ma mantenerla su un fondale di 30 metri per limitare costi e sorprese tecniche; si possono ottenere gli stessi vantaggi di navigabilità ed in aggiunta un aumento del 60% degli spazi portuali di Sampierdarena.

Questo progetto può integrarsi con un’esistente ipotesi di sviluppo portuale, denominato Bruco, elaborato del Politecnico di Torino e convalidato del Rina di Genova che, grazie a una soluzione innovativa, quadruplica la potenzialità portuale e risolve contemporaneamente i problemi di spazio e di attraverso dell’Appennino. Si autofinanzia, quindi non necessita di risorse pubbliche, è realizzabile in tempi brevi ed elimina i principali vincoli logistici del Nord Italia. Queste sue caratteristiche positive fanno però cadere le rendite di politici e imprenditori coinvolti, quindi non viene discusso e neanche se ne parla.

Sono i meccanismi decisionali perversi conseguenza della mancanza di una struttura operativa pubblica che possa affrontare unitariamente il problema, usando la conoscenza del “fare”; prevalgono le posizioni dei soggetti “competenti”, anche se portatori di interessi opposti a quelli della collettività. Si tratta di un comportamento non dovuto agli uomini ma quasi obbligato ed automatico; ricordo un caro amico, uno dei migliori sindaci di Genova, che di fronte alle ipotesi dello sviluppo alternativo portuale del Bruco mi ha correttamente detto: “penso che hai ragione ma nel mio ruolo istituzionale non posso prendere posizione senza l’avvallo ufficiale di una struttura pubblica titolata al compito specifico”. Nel nostro impianto istituzionale non esistono i meccanismi e la conoscenza per svolgere tale ruolo di sintesi.

Moltiplicatori di disfunzioni. Le disfunzioni in economia vengono ampliate da moltiplicatori che coinvolgono settori paralleli o dipendenti. Abbiamo visto che per l’evoluzione tecnologica/organizzativa degli ultimi 40 anni, circa un 70% della possibile/necessaria produzione viene esercitata senza un meccanismo di controllo reale sui risultati; di conseguenza per il 70% del Pil ci affidiamo al “governante illuminato” che non sa quali sono le necessità della collettività, nessuno gli impone di soddisfarle ed è lui stesso che decide cosa fare e controlla che venga fatto.

Mille controlli formali ma nessun controllo reale, con l’inevitabile dittatura diffusa che fa e disfa a proprio piacimento previlegiando il presente a scapito del futuro. Il risultato è sotto agli occhi di tutti, l’abbiamo illustrato troppe volte diventa quasi inutile ripeterlo. Più utile è soffermarsi su ciò che non si vede e nasconde le principali disfunzioni.

La mancanza di un 70% della domanda globale, perché incapace di esprimersi, ricrea la situazione dell’Ottocento quando analogamente mancava il 70% di domanda globale perché il proletariato era privo di potere d’acquisto. Allora le crisi ricorrenti e la disoccupazione dilagante hanno fatto saltare il sistema. Anche oggi dilaga la disoccupazione però da noi non è dirompente perché mitigata da coperture sociali e precedenti ricchezze accumulate; diversa è la situazione di chi è privo di queste possibilità.

Terzo mondo. I problemi finora esaminati riguardano infatti le democrazie avanzate, minoranza privilegiata che rappresenta però solo un 15% della popolazione mondiale, il vero dramma riguarda l’altro 85%; a livello mondiale abbiamo ricreato, con modeste differenze percentuali, la nostra realtà dell’Ottocento dove a fronte di un 5% di borghesia benestante privilegiata avevamo un 95% di proletariato senza diritti e senza reddito. Anche oggi quel 85% di esclusi hanno condizioni intollerabili che non è possibile ignorare.

In passato la loro povertà era in parte inevitabile ed alimentava il nostro benessere; oggi, forse mi illudo, ma non è più così perché la situazione è potenzialmente cambiata e la ricchezza dei paesi avanzati, soprattutto adeguando il meccanismo democratico/produttivo, si autosostiene e non ha più bisogno di popolazioni sottomesse. Comunque la responsabilità storica permane e soprattutto la nostra tecnologia, che coinvolge l’intero mondo, ha rotto qualsiasi equilibrio economico sociale.

Abbiamo esportato la tecnologia senza fornire le “istruzioni per l’uso” perché dovevano essere elaborate e abbiamo travolto, cultura, usi, modelli organizzativi, scale sociali e famigliari senza che nulla potesse sostituirli. Anche le dittature non sono più compatibili con l’attuale livello tecnologico e quando un dittatore cade non viene sostituito da un altro ma da molte milizie armate in continuo conflitto; è emblematica l’esperienza della caduta di Gheddafi in Libia. Diventa il regno della pura violenza, incompatibile con qualsiasi diritto e livello di dignità. La disoccupazione senza coperture esplode lasciando come principale alternativa aderire a qualche banda armata assoldata dai “signori della guerra” in uno scontro di rapina e sopraffazione senza fine che alimenta e si integra con le dittature esistenti.

I migranti sono la punta dell’iceberg di un problema irrisolvibile caratterizzato da un’immensa capacità destabilizzante; i continui scontri che si protraggono senza vincitori, sono un aiuto a tutte le dittature e contengono un immenso rischio di degenerazione irreversibile. Nessuna soluzione attualmente è possibile perché un ipotetico piano d’aiuti avvantaggerebbe solo i dittatori, finanziando armi e follie. L’unica soluzione possibile rimane aggiornare il nostro impianto istituzionale democratico per fornire finalmente a noi e al restante mondo, da noi condizionato, le “istruzioni per l’uso” per sfruttare l’immensa tecnologia disponibile e trasformarla da causa della crisi in artefice del nuovo equilibrio economico/sociale, possibile e necessario a livello mondiale.

CAP. V – SUPERARE LO STALLO                                                                         

Logiche alternative. Per elaborare un’ipotesi di soluzione sarà bene sintetizzare nuovamente gli elementi che determinano l’attuale crisi; nella II metà del ‘900 le democrazie risultavano vincenti perché garantivano diritti e benessere diffuso grazie all’integrazione fra pubblico e privato. Il pubblico regolava la produzione privata e garantiva i diritti mentre il privato, grazie al controllo del mercato, offriva alla collettività un reale potere d’acquisto. Con la crescita della produzione della seconda metà del ‘900 si è conclusa la prima fase produttiva; sono nate nuove necessità non controllabili dal mercato e quindi non gestibili con la logica privata. Progressivamente questa produzione è diventata prevalente, un 70% del totale, coinvolgendo i principali settori strategici.

La mano pubblica ha cercato di coprire il vuoto organizzativo, gestendo direttamente questa produzione, ma nel suo impianto istituzione non esistevano gli strumenti necessari a elaborare una strategia produttiva, né gestire o indirizzare l’attività economica; poteva controllare i comportamenti formali dei singoli produttori ma non valutare gli obbiettivi raggiunti e la loro coerenza produttiva a livello del Sistema Paese. Così la mano pubblica ha gestito in maniera più o meno diretta, una parte predominante della produzione, circa il 70% del totale, senza avere né la conoscenza degli obbiettivi da raggiungere, né la convenienza a raggiungerli, né effettuare controlli reali sui risultati raggiunti, né la disponibilità di strumenti per valutare obbiettivi e strategie da perseguire; si è così mossa senza vincoli in un totale arbitrio che distruggeva risorse, conoscenze e penalizzava la democrazia.

Per uscire da questa drammatica crisi e ricreare una situazione democratica, è necessario dotare la collettività di uno strumento istituzionale che le permetta, anche per questa parte di produzione, di imporre le proprie necessità economiche, controllare che vengano soddisfatte per garantirsi il potere d’acquisto; questa funzione non può essere svolta dalle elezioni, pensate per garantire i diritti. Già all’inizio del ‘900 i rivoluzionari russi avevano capito il limite produttivo/equitativo del nostro impianto istituzionale ed avevano ipotizzato una diversa struttura organizzativa ottenuta attraverso i Soviet. Questo strumento realizzava una piramide gerarchica/conoscitiva che partendo dall’autogestione produttiva delle “masse” operaie e contadine si agglomerava, livello per livello, e costituiva la struttura pubblica.                            

Sembrava, nell’ottica marxista, la soluzione di tutti i problemi: si eleminava lo sfruttamento del “padrone” e si dava integralmente al proletariato la gestione politico/economica; difficile resistere al fascino di questa soluzione. È stato necessario un secolo per capire che l’ipotesi prendeva in considerazione per combattere lo sfruttamento, secondo la logica marxista, solo il momento produttivo e non l’intero ciclo. Si basava infatti sulla dialettica padrone/lavoratore e non sulla più complessa dialettica produttore-collettività/utente; trascurava quindi l’efficienza produttiva e l’utilizzo del prodotto. I Soviet rappresentanti dei lavoratori hanno necessariamente privilegiate le necessità del lavoratore-produttore su quelle prioritarie della collettività/utente. Solo una feroce dittatura ha permesso di superare questa contradizione per garantire la produzione.

Non è quindi possibile utilizzare le aziende produttive come nucleo di base della nuova organizzazione perché gli interessi dei suoi lavoratori, in quanto produttori sono in conflitto con quelli prioritari della collettività/utente. Questo conflitto potrebbe essere superato solo se la produzione non fosse conto terzi, come attualmente,ma conto proprio in modo che produttore e consumatore coincidano e abbiano lo stesso obbiettivo di massimizzare i risultati.

In quest’ottica negli anni ’80 avevo costituito una Comune agricola in provincia di Spezia per capire la possibile autogestione democratica di una produzione in contro proprio. La cosa teoricamente è realizzabile ma poco generalizzabile e difficilmente potrebbe sfruttare sia le economie di scala che la libertà e fantasia creativa del singolo.

Domanda collettiva. Scartando le organizzazioni aziendali come nucleo di base di un’organizzazione alternativa, le altre possibili ipotesi elaborate si sono rilevate semplici palliativi non idonei a superare la gestione elitaria e l’incubo dei Soviet. Il problema pareva irrisolvibile; invece per smettere di essere tale è stato sufficiente superare un inconscio, ma radicato, vincolo mentale. Quando parliamo di produzione facciamo sempre riferimento al meccanismo produttivo, perché rappresenta sia la parte organizzata, che lo strumento che gestisce la produzione.

Invece la produzione è solo lo strumento tecnico utilizzato per soddisfare le necessità della collettività/utente e ad esse è subordinata; quando, per le ragioni viste, la domanda del singolo soggetto della collettività/utente, non è in grado di condizionare il produttore non è necessario modificare la logica produttiva, ma è sufficiente agglomerare e gestire la domanda collettiva di tutti i soggetti che utilizzano gli specifici prodotti. Le attività prese in esame che non sono condizionabili dal singolo utente, cioè dalla sua domanda individuale, possono infatti correttamente essere controllate organizzando la domanda collettiva di tutti i soggetti interessati alla disponibilità dello specifico prodotto.

Il campo è più ampio di quello che potrebbe sembrare perché coinvolge, (come evidenziato a pag. 32) sia tutte le attività che non hanno lo strumento per esprimersi sia quelle che utilizzano formalmente una finta domanda individuale priva di possibilità di scelta e selezione del produttore; abbiamo citato i servizi dovuti quali sanità e istruzione, nonché i servizi al territorio svolti in regime di monopolio naturale. Tutti questi settori sono di fatto gestiti dalla mano pubblica in forma dittatoriale perché la collettività non dispone del potere di richiederli ed imporli; vengono svolti senza alcun controllo reale, mentre lo stesso soggetto svolge sia il ruolo di produttore sia quello di portavoce della collettività/utente; cioè controllato e controllore.

Caratteristica della domanda collettiva. Di conseguenza il 70% della produzione, privo di domanda individuale, manca attualmente degli strumenti che permettano alla collettività/utente di esprimere le proprie necessità, imporle e garantire l’ottimizzazione produttiva. La domanda ugualmente esiste, e come tale può essere esercitata ma non dal singolo utente ma dall’insieme dei soggetti interessati allo specifico prodotto; domanda collettiva quindi e non più domanda individuale. Esaminiamo caratteristiche e vincoli della domanda collettiva.

La prima caratteristica rappresenta un notevole problema. Per i prodotti gestiti dal mercato attraverso la domanda individuale il singolo membro della collettività manifesta la sua richiesta e dispone della conoscenza per effettuare la scelta perché lo riguarda direttamente e si riferisce a prodotti facili da valutare; per la domanda collettiva invece vengono coinvolti più soggetti che difficilmente possono fare una scelta se non sono inseriti in un’organizzazione in grado di garantire coordinamento, potere e conoscenza.

Inoltre la domanda individuale riguarda prevalentemente prodotti, quale un elettrodomestico, che già esistono per cui con facilità si può confrontare quanto scelto con altre possibili soluzioni esistenti; la scelta, molto facilitata, non richiede quindi l’esame del processo produttivo perché l’utente può limitarsi a valutare il risultato ottenuto a processo produttivo concluso.

Nella quasi totalità dei casi di domanda collettiva quale ad esempio un’infrastruttura, si tratta invece di prodotti da realizzare quindi non si deve solo valutare la loro utilità ma anche cosa produrre e l’organizzazione produttiva che li realizzerà, perché proprio la valutazione di caratteristiche, tempi, costi ed affidabilità del costruttore sono gli elementi determinanti per la scelta.

È il campo minato dell’economia, con interrelazioni complesse, dove la realtà quasi sempre è l’opposto di quanto appare. Quasi impossibile diventa effettuare una scelta corretta senza il supporto di conoscenza/potere che fornisce solo una struttura gerarchica/conoscitiva come quella dell’azienda, con molti “posti di guida”, dove i singoli partecipanti sono coinvolti solo al livello della propria competenza e si interfacciano con gli altri livelli per la trasmissione della conoscenza e potere necessari a permette una unitaria e coerente sintesi decisionale.

La mancanza di questo strumento crea il meccanismo perverso che fa esplodere le contradizioni della mano pubblica: i decisori pubblici non dispongono della conoscenza necessaria è subiscono i produttori privati che, pur in conflitto d’interessi, utilizzano la conoscenza prodotta dalla loro organizzazione produttiva. La mancanza della possibilità di controllo sui risultati, annulla l’importanza dell’obbiettivo produttivo; il risultato infatti è di difficile valutazione, si evidenzia dopo lungo tempo e quindi facilmente verrà attribuito al politico subentrato, spesso di partito e ideologia opposta. Si preferisce così far crescere la spesa pubblica, ricuperando risorse da destinare subito al territorio con un forte ritorno di occupazione e potere.

Logica organizzativa della domanda collettiva. È necessario che i decisori pubblici e la collettività possano disporre della conoscenza e potere necessari, per avere la possibilità di controllo sui risultati e valutare i singoli soggetti sui risultati raggiunti, stimolando l’ottimizzazione produttiva. E’ quindi necessario partire da una logica diversa che inevitabilmente ricalca quella dell’organizzazione aziendale.

Il nucleo sarà quindi una struttura gerarchico/amministrativa ancorata al territorio, divisa per livelli, con un meccanismo continuo, che permette a ciascun livello organizzativo della collettività/utente di disporre degli strumenti necessari per conoscere le proprie necessità, valutarle, chiedere che vengano soddisfatte e controllare il risultato ottenuto. Questo meccanismo non assolve solo al ruolo di controllo della base rispetto al vertice ma anche quello, propedeutico e prioritario, di fornire ai singoli soggetti della collettività/utente la conoscenza necessaria per valutare ed effettuare le scelte di propria competenza.

Si può così ricreare un meccanismo di gestione della domanda analogo ma contro faccia di quello aziendale, che senza modificare l’organizzazione del produttore crei una struttura idonea a fronteggiarla per manifestare, esprimere ed imporre le necessità della specifica collettività/utente. È la situazione standard di quando un’azienda appalta ad un’altra determinati prodotti. Questo meccanismo virtuoso potrebbe quindi garantire, anche per la domanda collettiva, analogo potere di imposizione e controllo esercitato per la domanda individuale, e garantire così finalmente ottimizzazione produttiva, crescita, benessere collettivo e conoscenza per riattivare il circolo virtuoso delle democrazie della seconda parte del ‘900.

Se infatti ciascun gruppo della collettività/utente ha la dimensione necessaria per controllare la produzione che soddisfa le sue specifiche necessità, diventa possibile esprimerle, imporle e controllarne l’esecuzione, come fa il singolo per le necessità espresse dalla domanda individuale. Per l’asilo saranno le mamme del quartiere, per i trasporti urbani gli abitanti della città e così via via, risalendo i vari livelli, per arrivare a problemi sempre più generali. In tutti i casi i vari gruppi della collettività/utente, livello per livello devono poter disporre della conoscenza e del potere necessari per conoscere le specifiche necessità, valutarne priorità e compatibilità, imporle, controllare i risultati raggiunti ed ottenere l’ottimizzare produttiva       

IV potere: l’attività sopra vista dovrebbe essere delegata a una nuova struttura pubblica che chiamiamo IV potere. L’ipotesi di una complicata struttura pubblica delegata a gestire la domanda collettiva può certamente suscitare qualche perplessità ma non dimentichiamo che la borghesia a metà del’700, per prendere e consolidare il proprio potere ha teorizzato, attraverso l’Illuminismo francese, la tripartizione dei poteri che rappresentava uno sconvolgimento generale del sistema istituzionale, ma proprio per questo ha modificato l’ordine mondiale.

Più semplice sarebbe stato allora prevedere un’Assemblea dei Baroni ma avrebbe cambiato ben poco e forse sarebbe stata anche meno realizzabile perché qualsiasi cambiamento, anche modesto, implica la perdita dei privilegi di qualcuno; quindi l’opposizione facilmente vince se il cambiamento, poco significativo, non ha la forza di imporsi. Inoltre la nuova struttura non è in aggiunta alle strutture pubbliche esistenti ma in buona parte potrebbe sostituire un meccanismo parassitario, scarsamente produttivo che assorbe più del 50% del Pil.

Comunque il salto richiesto oggi per costruire la società post borghese impone una discontinuità radicale ma è l’inevitabile prezzo da pagare per garantire il cambiamento, il benessere diffuso e l’equità distributiva. Le funzioni oggi delegate alle Istituzioni non erano state previste dall’Illuminismo francese perché in conflitto con i privilegi della borghesia; è necessario quindi inserirle nell’impianto istituzionale con uno strumento che colmi questo vuoto istituzionale. La forza dirompente dei vantaggi possibili aiuterà il cambiamento, forse più realizzabile dei finti cambiamenti.

La struttura istituzionalizzata, ancorata al territorio sarà quindi organizzata come un’azienda e strutturata per livelli; ogni livello garantirà il soddisfacimento delle sue specifiche necessità e delegherà al livello superiore quelle che esulano dal suo campo territoriale. Sarà quindi un’organizzazione piramidale, basata sulla logica aziendale, attualmente unica organizzazione produttiva; avrà però alcune fondamentali differenze.

Nell’azienda la conoscenza sale per livelli dalla base al vertice e poi ridiscende come potere dal vertice alla base (potere dall’alto). Nel nostro caso invece conoscenza e potere salgono entrambi, livello per livello, dalla base al vertice per ridiscendere alla base (potere democratico dal basso). Differenza che in parte si sta già attenuando perché anche le aziende puntano al decentramento del potere per aumentare la partecipazione produttiva che migliora la competitività.

Nel nostro caso il decentramento del potere potrà essere più spinto e ogni livello sceglierà sul campo, non per titoli ma per capacità e risultati, il proprio leader, nonché il rappresentante che opererà al livello superiore finalizzato a soddisfare le specifiche necessità di quel più ampio spazio territoriale. Abbiamo già detto che come prima approssimazione, salvo che l’esperienza identifichi divisioni diverse, possiamo ipotizzare come nucleo di partenza il Municipio, che si agglomera nel Comune, e via via nella Regione, nello Stato, nella Ue e forse alla fine nell’Onu o altro organo creato ad hoc.

Differenza situazione attuale. Oggi le elezioni costituiscono una delega periodica diretta base/vertice e sono quindi idonee a regolare i diritti, ma per la gestione economica corrispondono a una delega in bianco senza controllo. Il IV potere dovrebbe superare il problema realizzando un concreto inserimento nel territorio dove la base dell’organizzazione collettiva dialoga in modo diretto e continuo con la base della collettività/utente, rendendo interdipendenti fra le parti conoscenza e potere. Il flusso di entrambi salirà livello per livello fino al vertice per ridiscendere alla base realizzando l’ottimizzazione produttiva di ogni livello nonché una visione strategica globale.

Lo strumento ipotizzato dovrebbe permettere il vantaggio di fornire alla collettività/utente una risposta immediata alle proprie necessità, dotandola della conoscenza necessaria ad esprimere scelte coerenti e ragionate.  Ciascuno infatti viene coinvolto in scelte che, riguardando il proprio livello, si riferiscono a uomini di cui ha sperimentato la capacità e a cose che conosce e può giudicare. Inoltre tutti, come nella produzione conto proprio, hanno l’interesse comune di raggiungere i risultati previsti, in quanto i soggetti coinvolti al tempo stesso decidono e fruiscono della produzione. Hanno così anche la possibilità di valutare i risultati raggiunti e garantire l’ottimizzazione produttiva.

Si crea una fondamentale differenza con la situazione odierna dove chi esprime la domanda (necessità) da soddisfare è diverso da chi paga per quanto richiesto ed ha quindi poco interesse a ridurre tempi e costi d’attuazione; anzi i lavori in loco pagati da un soggetto esterno, lo Stato, rappresentano per chi li richiede una significativa fonte di reddito e potere; inevitabilmente prevale la convenienza ad aumentare tempi e prezzi. L’attuale meccanismo sembra studiato apposta per ottenere il massimo di irresponsabilità collettiva e sperpero di risorse; si potrebbe anzi pensare che non sia casuale ma di fatto, forse inconsciamente, serve ad accrescere i privilegi dei gestori del potere.

 Nell’ipotesi del IV Potere il gestore della domanda, che esprime la necessità, è lo stesso soggetto che paga i costi necessari al suo soddisfacimento e quindi cercherà di conoscere prima i relativi costi e contenerli al massimo. Ovviamente si potranno ipotizzare aiuti fra zone a diverso livello di sviluppo economico ma questo dovrà riguardare solo una percentuale dell’intero costo, come già avviene per le aziende; più del 50% dovrà sempre essere a carico dell’utilizzatore per non ricreare le attuali irresponsabilità collettive.

Aspetto culturale. L’aspetto principale del problema è comunque di tipo culturale; infatti attualmente una parte predominante della popolazione, pari al 70% del totale, per la generale parcellizzazione e la mancanza di controllo sui risultati, esegue un lavoro privo di ottimizzazione produttiva; subisce quindi una “non conoscenza” che mina alla base la democrazia perché fa degenerale qualsiasi dibattito e non rende possibile la partecipazione della collettività a un meccanismo produttivo complesso.

Tutti i cambiamenti radicali hanno comunque scontato un gap culturale rispetto alle nuove conoscenze necessarie; è successo nel ‘900 con il suffragio universale e analogamente avverrà per i IV potere. Quando però il suffragio universale ha permesso l’inizio della costruzione democratica, la partecipazione all’evoluzione virtuosa ha dato alla collettività le necessarie conoscenze e responsabilità. L’attuale inadeguatezza collettiva è frutto del vuoto organizzativo non dell’inadeguatezza della popolazione e potrà essere superata solo con un nuovo strumento democratico per garantire la reale partecipazione che crea conoscenza.

Il IV potere dovrebbe permettere questo inserimento/partecipazione, che è il principale contenuto dell’organizzazione aziendale e garantisce il know out aziendale, basato sulla selezione di uomini e funzioni, che in molti casi rappresenta il nucleo stesso del valore aziendale. Il IV Potere dovrebbe disporre di condizioni analoghe per selezionare uomini e funzioni, nonché alimentare la conoscenza e diventare il centro d’eccellenza del meccanismo produttivo.

Il discorso è particolarmente importante oggi perché l’evoluzione tecnologica richiede nel ciclo produttivo sempre maggiore conoscenza e intelligenza ed accentua l’interdipendenza produzione-conoscenza in cui l’una deriva dall’altra e viceversa. Questo permette di far crescere quello che già oggi è il grande vantaggio delle democrazie, perché l’intelligenza necessita di libertà non compatibile con le dittature.   

Necessità del IV Potere e reddito di cittadinanza- L’utente cioè il gestore della domanda individuale, per effettuare l’acquisto, deve conoscere il costo del singolo prodotto richiesto e le risorse disponibili (reddito); la disponibilità di questi due elementi, è necessaria per rendere la scelta reale e non un semplice mi piace privo di contenuto economico. Le stesse condizioni si devono poter ricreare per la domanda collettiva dal IV potere, cioè conoscere risorse disponibili e costi delle varie alternative. Vediamo singolarmente i due punti.

Costo del bene – Una buona organizzazione della domanda può risolvere con facilità il problema relativo a costi e tempi necessari a soddisfare le proprie necessità; la situazione è analoga a quella di un’azienda che, se ben organizzata, può stabilire, con accettabile approssimazione, qualità, tempi e costi, per l’acquisto di beni e servizi anche complessi come la costruzione di una nave. La mano pubblica subisce normalmente tempi e costi decuplicati per qualsiasi appalto effettuato, ma non è casuale ed anzi evidenzia la pesante disfunzione, conseguenza inevitabile della mancanza di controllo reale da parte della collettività/utente.

Risorse disponibili – Più complesso è stabilire di quali risorse possono disporre, all’interno del IV potere, i gestori della domanda collettiva. Una prima ipotesi potrebbe prevedere di prelevare una parte del gettito fiscale, ma richiederebbe complicati meccanismi di calcolo che farebbero la gioia della dittatura diffusa dei burocrati e toglierebbero qualsiasi certezza. Potremmo invece trattenere in loco una quota delle tasse della zona mettendole a di disposizione dei gestori della domanda collettiva; un po’ meglio ma complesso e discriminatorio fra zone ricche e povere.

La carica di novità della soluzione richiede un analogo salto di qualità nella logica organizzativa, per garantire semplicità e maggiore contenuto democratico; tale potrebbe essere l’utilizzo del reddito di cittadinanza, visto anch’esso però da un’angolazione innovativa. Non deve essere un sussidio alla povertà perché diventa fonte di truffa e lavoro per i burocrati, ma un reddito a cui tutti i cittadini hanno diritto. Contrariamente a quello che può apparire, questo non implicherebbe un aumento significativo di spesa perché con un sistema fiscale decente, punto irrinunciabile, sarebbe a carico della collettività solo quello relativo ai soggetti in difficoltà economica, mentre per gli altri sarebbe una semplice partita di giro che esce ed entra pagando le tasse. La semplificazione sarebbe immensa, per questo non piace a furbetti e burocrati.

Potrebbe inoltre sostituire in buona parte della giungla assistenziale esistente, tanto cara ai burocrati; darebbe anche una vera garanzia economica – l’eliminazione della povertà – necessaria perché la nostra cultura giustamente non tollera che qualcuno muoia di fame o viva in un’inaccettabile indigenza; le garanzie sociali sono quindi necessarie ed è certo più economico realizzarle in una visione unica e generale, invece di sbriciolarle in mille casi specifici da gestire singolarmente.

Esse non rispondono solo a istanze morali ma anche a convenienze economiche perché, come ci insegnava Galbraith più di mezzo secolo fa, costa meno assistere gli esclusi che reprimere i disperati che non hanno nulla da perdere. Infine il salto qualitativo ipotizzato dovrebbe permettere un tale aumento delle risorse disponibili da rendere possibili situazioni oggi inimmaginabili, dove la copertura dei costi non sarà più il problema fondamentale.

È così possibile alimentare il territorio con una fonte di risorse rigidamente paritaria e fortemente democratica che strada facendo può crescere per aumentare le coperture sociali. Parliamo infatti di una funzione economica inserita funzionalmente nella logica produttiva e gestita su base democratica, grazie a una reale partecipazione della collettività, che può scegliere cosa vuole ed ha competenza e potere per farlo. Sarebbero così soddisfate tutte le condizioni dell’acquisto e potrebbe finalmente finire la delega in bianco delle elezioni per la gestione economica; potrebbe realizzarsi un incredibile crescita di libertà, risorse, conoscenza collettiva ed equità distributiva.

La nuova democrazia del IV potere. Finora abbiamo esaminato gli aspetti tecnici del nuovo strumento istituzionale, le difficoltà e i possibili vantaggi economici raggiungibili; l’istituzione del IV potere supera però questa dimensione tecnica e diventa uno strumento determinante per raggiunge il più alto livello democratico necessario, tagliarndo finalmente il cordone ombelicale che ancora ci vincola alla logica della “democrazia” borghese.

La “democrazia borghese” è nata per superare lo stato feudale e garantire i privilegi della borghesia, nuova classe meritocratica, che utilizzava il mercato come principale strumento economico; grazie ad esso era possibile selezionare sia la produzione sulla base di efficienza, innovazione e solidità accumulata, sia la distribuzione assegnando le risorse in base ai redditi di cui ciascuno disponeva. È uno strumento rigidamente meritocratico, consono alla logica borghese, che premia potere ed efficienza, trascurando gli esclusi e l’equità distributiva.

Nel tempo si è cercato di mitigare questa rigida selezione; inizialmente concentrando l’attenzione sull’aspetto remunerativo, cioè sottrarre la forza lavoro alla logica del mercato, fissando la sua remunerazione con contratti di lavoro concordati ed obbligatori; era un primo passo obbligato e rappresentava l’obbiettivo più facile da raggiungere. Solo successivamente si è affrontato l’aspetto distributivo cercando di sottrarre al mercato, per vincoli sociali, alcuni prodotti considerati irrinunciabili quale sanità, istruzione e alcuni altri. L’obbiettivo era corretto, ma il risultato raggiunto è stato scarso proprio perché l’attuale struttura istituzionale non ha gli strumenti per gestire questa diversa logica. Anche aggiustando il tiro, non è possibile per questa strada, rompere la logica rigidamente meritocratica e modificare significativamente la situazione generale.

Il IV potere dovrebbe poter superare questi condizionamenti, sottraendo, nel settore distributivo, alla logica meritocratica del mercato una fetta crescente dei prodotti offerti al singolo membro della collettività/utente. Questa fetta è stata oggi stimata nel 70% dell’intera produzione ma potrebbe ancora crescere perché diventerebbe possibile soddisfare tutte le necessità oggi non espresse per la mancanza degli strumenti necessari al manifestarsi della domanda. La parte principale dei prodotti che determinano il nostro benessere non sarebbe quindi più determinata dal mercato meritocratico, ma dal IV potere nuovo strumento gestito democraticamente. Limitare la spinta meritocratica del mercato nel meccanismo produttivo sarebbe complesso, limiterebbe l’ottimizzazione produttiva e potrebbe produrre contro indicazioni anche sociali; farlo nel settore distributivo viene invece premiata la base della piramide sociale perché maggioritaria 

Il passaggio dalla società feudale a quella borghese è stato caratterizzato dalla riduzione dell’agricoltura, nucleo della società feudale, da quasi il 90% della produzione a meno del 20% (in Usa 3%). Analogamente il passaggio dalla società borghese alla nuova società, che ancora non sappiamo come chiamare, potrebbe realizzarsi facendo passare, nella distribuzione delle risorse, il peso del mercato meritocratico da un 80% a un 30% forse 20% del totale.

Il passaggio, in una visione un po’ utopistica, potrebbe essere ancora più dirompente. Infatti da quando i Greci, circa 2.500 anni fa, hanno messo l’uomo al centro della nostra società ed hanno iniziato la costruzione della civiltà occidentale, la storia è stata caratterizzata da due forze contrapposte in continuo conflitto. Da una parte l’istanza morale che chiedeva la valorizzazione dell’uomo, il riconoscimento dei diritti, l’equità distributiva e la democrazia, dall’altro il potere economico che faceva prevalere la forza con il predominio dei forti sui deboli. L’indiscusso vantaggio dell’utilizzo della forza ha reso quasi sempre vincente la seconda istanza, pur meno nobile.

L’ottimismo della volontà potrebbe permetterci di ipotizzare meno utopistica l’inversione di tendenza; se l’elemento portante della capacità produttiva e quindi della forza, sarà l’intelligenza diffusa, frutto della libertà, diventerebbero vincenti la valorizzazione dell’uomo, il suo sviluppo, la conoscenza, i diritti, l’equità. Tutti elementi che sono incompatibili con l’imposizione del potere dall’alto delle dittature; dovrebbero quindi prevalere le democrazie e modificarsi i rapporti fra uomini e popoli.

Possibile futuro impianto istituzionale: parliamo di seguito di ipotesi basate sulla fantasia creativa, ma che possono facilitare la comprensione di un possibile assetto futuro del sistema economico/sociale. Possiamo immaginare:

  • il Parlamento stabilisce i diritti sia civili che economici dei membri della collettività: lo scopo per cui è stato pensato.
  • il Governo, come braccio operativo, è incaricato di farli rispettare; fondamentalmente quindi rispetto della legge, e gestione della forza cioè ordine pubblico e difesa (spero non guerra); anche questa è la funzione che ha sempre assolto e per cui era stato pensato.
  • IV Potere, gestisce la domanda collettiva per elaborare la strategia del sistema Pese, garantendo il controllo della collettività/utente su tutte le attività a domanda collettiva, attualmente non controllabili dal mercato.
  • La Magistratura dirime le controversie fra tutte le parti in causa e i diversi poteri, subendo però un controllo sui risultati da adeguare alla nuova logica
  • L’attività produttiva sarà privata con regole e vigilanza pubblica e un rigido controllo dei risultati effettuato dal mercato. Come il soggetto della domanda individuale attualmente è libero di prodursi i beni che gli interessano, così analoga libertà avranno i responsabili della domanda collettiva.

Potrà funzionare? Difficile dirlo a priori, sembrerebbe di sì, anche se dovrà essere messo a punto strada facendo, utilizzando l’esperienza e gli errori fatti. Possono comunque tranquillizzarci due elementi: primo – nessuno finora ha identificato una diversa soluzione potenzialmente migliore, direi anzi che il problema è stato in parte ignorato; secondo – una situazione peggiore dell’attuale è difficile da immaginare per cui qualsiasi piccolo miglioramento sarebbe comunque un successo; centrare l’obbiettivo significherebbe ottenere un miglioramento finora inimmaginabile. Vale la pena di provare!

Strategia realizzativa e conclusioni provvisorie. Non pensiamo di aver trovato la formula magica che apre un futuro radioso, oggi inimmaginabile, perché la realtà è sempre più complessa e condizionata da variabili non considerate che modificano la situazione, imponendo continui adeguamenti. Siamo però sicuri che abbiamo incominciato a muoverci nell’unica direzione possibile per andare oltre ai discorsi correnti che si focalizzano sui comportamenti di funzionari e politici senza capire che la loro inadeguatezza non è causa ma conseguenza della crisi. La strada quindi è obbligata e l’urgenza è forte perché l’attuale struttura sta degenerando e a breve potrà essere in discussione la sopravvivenza stessa della democrazia, dell’equilibrio ecologico e di tutti i valori che caratterizzano la nostra civiltà.

Il peggiorare della situazione odierna con sempre nuove guerre che ci riguardano più direttamente quali Ucraina ed Israele, confermano quanto andiamo ripetendo. Il momento storico ricorda gli analoghi anni ’20 del ‘900 ed è necessario impedire che la situazione nuovamente degeneri con dittature e guerra. Le dittature e la guerra del ‘900 sono costate lacrime e sangue, però alla lunga l’equilibrio è stato ritrovato. L’attuale potenza delle armi non fa sperare che possa esistere un “dopo” al conflitto. Einstein diceva: ”non  so con quali armi si combatterà la prossima guerra mondiale, ma so che quella successiva userà la clava”.

Si impone quindi una “discontinuità radicale”, che non possiamo chiamare rivoluzione perché non siamo in presenza della maggioranza che abbatte gli inaccettabili privilegi di una minoranza, ma al contrario della necessità di rimuovere un’ampia maggioranza che fruisce di ingiustificati privilegi, singolarmente piccoli ma tali da impedire alla struttura pubblica di assolvere al proprio ruolo, rompendo l’equilibrio generale.

Si blocca infatti la catena virtuosa dell’ottimizzazione produttiva e si impedisce la crescita di risorse, sviluppo, uguaglianza e benessere diffuso. Si riduce il tenore di vita dell’intera collettività, compreso degli stessi privilegiati, perché nella veste di utenti subiscono danni maggiori dei privilegi ottenuti. Il cambiamento quindi potrebbe convenire a tutti, essere indolore e verificarsi nel punto in cui la crisi è più penalizzante; forse in Italia, il paese più arretrato delle democrazie avanzate e originare a Genova, la città che maggiormente soffre dell’incapacità pubblica.

Queste cose le ho ripetute troppe volte, anche se ogni volta ho cercato di fare un passo avanti per meglio evidenziare le possibilità del mondo possibile e i vincoli odierni; non so per quanto potremo ancora ripeter le stesse cose perché siamo arrivati a un bivio che impone un diverso passo. Le pessimistiche previsioni fatte in questi anni si sono in buona parte confermate e la realtà purtroppo è stata peggiore del previsto. Non posseggo certo la verità ma sono convinto che lo studio che porto avanti da più di 10 anni è arrivato a un livello sufficiente per capire se la strada imboccata sia attendibile e possa portare a delle reali soluzioni.

Diventa quindi urgente iniziare un dibattito che coinvolga più soggetti e possa approfondire, mettere a punto l’argomento e renderlo conosciuto e divulgabile. Sappiamo che sono le necessità della collettività che determinano i cambiamenti nella realtà politico/sociale, non le elaborazioni teoriche; però queste possono servire, e sono necessarie, per indicare alle forze evolutive una direzione possibile, idonea a raggiungere l’obbiettivo. È stata la rivoluzione francese che ha travolto il potere feudale, però la tripartizione dei poteri dell’Illuminismo francese ha fornito la logica per costruire lo strumento tecnico necessario alla crescita ed al consolidamento della vincente società borghese.

Oggi la crisi è sempre più forte, compromette gli equilibri, internazionali, sociali, economici, culturali; l’istanza di cambiamento è dirompente e alimenta i movimenti contestativi sia in Italia che negli altri Paesi. Basta pensare in Francia a Macron e ai Gilet jaunes, in Italia ai 5 Stelle, i vari populisti, le Sardine ed altri. Tutti i movimenti hanno un grande successo iniziale ma si rilevano ben presto fuochi di paglia perché si limitano a ipotizzare uomini virtuosi che sostituiscano gli attuali responsabili; manca qualsiasi ipotesi di gestione alternativa della struttura pubblica. Inevitabilmente si evidenzia che la sostituzione degli uomini nulla cambia, anzi spesso la situazione peggiora e la prassi risulta più irresponsabile di quella dei predecessori; si  conferma così che l’inadeguatezza dei soggetti rappresenta solo il modo di manifestarsi della crisi.

Dotare questa continua protesta di un’analisi strutturale, come quella che può uscire da un serio dibattito, evidenziare i meccanismi condizionanti che bloccano l’impianto istituzionale e le modifiche possibili, potrebbe trasformare un fuoco di paglia in un incendio che travolge il presente ed apre al futuro. Certamente non facile né breve, però forse possibile e, come diceva Mao, anche la lunga marcia inizia con un piccolo passo.

Mi rivolgo quindi a chi considera che quanto scritto contenga qualcosa d’interessante e non vuole aspettare, come lo struzzo, che il peggio succeda, e gli chiedo di fare un passo avanti. Con l’e-mail, in parte già conosciuta (bruno.musso@grendi.it) è facile un contatto circolare (potenza dell’elettronica!), che permetta di vedere se esistono le condizioni di questo secondo passo. Nessuno si aspetti successi immediati, l’obbiettivo è immenso perché riguarda il mondo che deve evitare il disastro annunciato; la posta in gioco giustifica però l’oggettivo rischio di insuccesso.

Io sono a disposizione di tutti e, data la mia veneranda età, fino a quando le sinapsi si collegheranno posso continuare a fornire il mio supporto logico, ma per la parte organizzativa servono dei volontari; magari giovani che in un domani, lontano o vicino non so, potrebbero diventare responsabili di una qualche nuova struttura pubblica finalmente funzionante. Non appartengo all’attuale mondo politico e quindi non faccio promesse, né fornisco garanzie di successo, dico solo: “vale la spesa di andarci a vedere”. Aspetto di vedere chi si fa avanti per capire se siamo in grado di fare quel fatidico “primo piccolo passo”                                

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