DEMOCRAZIA POSSIBILE E NECESSARIA

Bruno Musso – Genova 8.10.23

Indice

CAP. I – LA CRISI ISTITUZIONALE E LA SUA NEGAZIONE                                                                         

Esistenza della crisi istituzionale

            Riscaldamento globale

            Le principali motivazioni del negazionismo della crisi istituzionale

Attualità della democrazia

            Dimensione della crisi

            Capacità di autogestione democratica della collettività

Primi tentativi democratici

Attualità della democrazia

Situazione attuale 

Legittimazione

CAP. II – NECESSITA’ E LOGICA DEI MECCANISMI DEMOCRATICI                                

Logica della democrazia.

            Strumenti democratici

Riconoscimento dei diritti

Struttura produttiva

L’acquisto

            L’organizzazione aziendale

Teorie marxiste: funzione e degenerazione

Cap. III –OTTIMIZZAZIONE PRODUTTIVA

Obbiettivo della produzione.                                                                                     

Crescita conoscenza

Crescita risorse economiche

Occupazione

Equilibrio mondiale.

Le contradizioni della sinistra:

L’equivoco conoscitivo

Sintesi storica

            Dominio borghese nell’Ottocento

Binomio capitalismo/democrazia nella seconda metà del ‘900

Sintesi

CAP. IV – LA ROTTURA DEL MECCANISMO ISTITUZIONALE                                          

Situazione.

Possibilità e limiti del mercato

Aspetti socialI e produttivi del mercato

Necessità di una nuova logica

Punti non risolti

Conseguenze economiche

Caso Genova

Moltiplicatori di disfunzioni

Terzo mondo.

CAP. V – SUPERARE LO STALLO                                                                                                           Logiche alternative

Domanda collettiva.

Caratteristiche della domanda collettiva

Logica organizzativa della domanda collettiva

IV potere

            Differenza situazione attuale.

            Aspetto culturale

Le necessità del IV Potere e reddito di cittadinanza

La nuova democrazia del IV potere

Possibile futuro impianto istituzionale

Strategia realizzativa e conclusioni provvisorie

CAP. I – LA CRISI ISTITUZIONALE E LA SUA NEGAZIONE                                                

Esistenza della crisi: La crisi della democrazia è indiscussa, non c’è articolo o dibattito che non lo rilevi e tutti sottolineano l’incapacità crescente dei regimi democratici di fronteggiare le grandi necessità economico/sociali della società moderna. Alcuni, anche di sinistra, pensano che solo l’uomo forte può garantire l’ordine e la coerenza comportamentale perché la democrazia avrebbe fatto il suo tempo e non sia più compatibile con la complessità della società moderna.

La maggioranza comunque attribuisce questi fenomeni alla caratteristica degli uomini coinvolti, alla loro incapacità di fronteggiare i difficili problemi che il sistema economico/sociale pone; quasi nessuno ipotizza che le disfunzioni non dipendano dall’incapacità umana, conseguenza e non causa della crisi, ma dal meccanismo istituzionale incapace di utilizzare le risorse disponibili, di selezionare e premiare gli uomini e le scelte migliori.

La ricerca infatti di possibili carenze istituzionali, causa delle disfunzioni denunciate incontra un generale rifiuto e tutti preferiscono fermarsi alla quotidianità delle scelte sbagliate. Un analogo assurdo comportamento si è verificato con riferimento al riscaldamento globale di fronte al quale per lungo tempo è prevalsa la logica di negarne l’evidenza.

Riscaldamento globale. Anche in questo settore i primi sintomi hanno incominciato a manifestarsi circa mezzo secolo fa, producendo inizialmente conseguenze marginali, cresciute progressivamente nel tempo, che hanno imposto alla coscienza collettiva un’evoluzione, realizzatasi attraverso quattro fasi successive.

I fase (negazionismo) – Le iniziali sparute denunce sono rimaste inascoltate perché contrastavano con cultura, abitudini e interessi fortemente consolidati dell’organizzazione esistente. I singoli fenomeni sono stati rilevati come fatti casuali connessi a situazioni specifiche; Trump continuava a negare l’esistenza del fenomeno. 

II fase – I livelli pericolosi raggiunti dal cambiamento climatico hanno imposto di prenderne atto, misurando l’ampiezza e le tendenze evolutive e quasi tutti progressivamente hanno concordato sulle valutazioni fatte.

III fase – Si è aperta così la possibilità di andare oltre e cercarne le cause; dopo anni di dibattito la tesi prevalente ha attribuito la disfunzione climatica al nostro dissennato consumo energetico; è stato così possibile valutare la dimensione del fenomeno, le tendenze e le drammatiche conseguenze di un mancato intervento.

IV fase – E’ iniziata la ricerca di possibili soluzioni che hanno coinvolto l’intero pianeta, valutando gli interessi in conflitto, le compensazioni e le conseguenze economiche delle soluzioni che verranno adottate.

Solo a questo punto è stato possibile intravvedere una strada non facile, né certa, ma necessaria. Anche questo fenomeno è comunque conseguenza della generale incapacità della struttura pubblica di assolvere il proprio compito e difficilmente le strategie ipotizzate saranno vincenti in carenza di meccanismi democratici funzionanti.

Le principali motivazioni del negazionismo della crisi istituzionale. La crisi della democrazia è ancora ferma all’iniziale fase negazionista che nega il fenomeno e attribuisce le disfunzioni all’errato comportamento degli uomini coinvolti, precludendosi così la possibilità di studiarne le cause e cercare possibili soluzioni. Se il fenomeno fosse solo italiano potremmo farlo risalire a nostri problemi specifici; riguarda invece tutte le democrazie mondiali e rappresenta un problema generale dell’odierno impianto istituzionale, coinvolgendo quindi l’attuale logica democratica basata sulla tripartizione dei poteri teorizzata a metà del ‘700 dall’Illuminismo francese per legittimare e consolidare la nascente classe borghese.

I motivi di questo generale rifiuto al cambiamento sono molteplici, si integrano e sostengono a vicenda; ne esamineremo singolarmente alcuni, evidenziando le cause che li determinano.

Primo – condizionamento culturale: pensiamo che i ghiacciai seguono leggi fisiche vincolanti mentre l’uomo, disponendo del libero arbitrio, ha un comportamento non obbligato e prevedibile. Il discorso è falsante a livello economico/sociale perché contradetto da due leggi della statistica: la prima è “la probabilità non ha memoria” quindi se si gettono i dadi 10 volte ed è sempre venuto pari, non esiste nessuna maggiore probabilità che la prossima volta sia dispari. La seconda è “per i grandi numeri la frequenza è uguale alla probabilità” cioè se getto i dadi 1.000 volte certamente il 50% delle volte viene pari e 50% dispari.

Il comportamento economico/sociale riguarda grandi numeri per cui la libertà del singolo individuo, non contrasta con i comportamenti obbligati della collettività, come conferma l’esame di qualsiasi momento storico; anche oggi i comportamenti dei singoli attori si conformano alle necessità della struttura in cui operano. Le dittature sono coerenti con le loro logiche condizionanti, mentre le democrazie scontano le contraddizioni del proprio impianto istituzionale.

Secondo – Ogni cambiamento impone la rinuncia oggi di privilegi e prassi consolidate, in nome di un vantaggio futuro. Il vantaggio, anche se consistente, riguarda la collettività e difficilmente i soggetti penalizzati; i risparmi energetici ad esempio aiutano tutti ma sono a carico di pochi produttori. Il cambiamento è quindi quasi sempre ostacolato anche se, stando alle previsioni del citato caso specifico, i produttori coinvolti potrebbero avere un buon ritorno in termini economici/occupazionali.

Terzo Facile capire la difficoltà a riesaminare la coerenza del nostro impianto istituzionale che implica necessariamente la modifica sostanziale della Costituzione. Le certezze alternative sono poche mentre la difesa dell’esistente è fortissima. Parliamo di elementi che possono rappresentare quasi dogmi di fede, come il Vangelo e quindi poco discutibile. Inoltre la nostra Costituzione, nata dalla Resistenza, è culturalmente e socialmente una delle più avanzate, portatrice di valori fondamentali.

Nessuno vuole però annullare i diritti sanciti dalla Costituzione, anzi se possibile li si vuole aumentare; si considera solo necessario integrare il molto che c’è, con il poco che manca in modo che i diritti sanciti possano essere reali e non solo formali. Infatti i diritti sono solo propedeutici e rimangono un semplice sogno utopico se parallelamente non esiste un sistema produttivo in grado di renderli reali garantendo i relativi prodotti. Per il breve periodo della II parte del ‘900, come vedremo, tale funzione è stata svolta dal mercato capitalistico, ma a fine secolo il meccanismo è risultato inadeguato, rendendo necessaria una maggiore partecipazione economica della struttura pubblica. La mancanza degli strumenti per garantire questo nuovo compito, rischia di compromettere i risultati raggiunti e quei diritti che devono caratterizzare l’impianto democratico.

Irrinunciabile è infatti il diritto gratuito a istruzione e sanità, ma perde di contenuto se nella realtà non è ottenibile; discorsi analoghi valgono per il lavoro e altri diritti previsti dalla Costituzione. L’evoluzione tecnologica realizzabile dovrebbe aumentare e non ridurre i diritti acquisiti e invece la crisi attuale sta riducendoli; questa evidente contradizione alimenta i legittimi comportamenti populistici.  

Quarto – Le modifiche riguardano la struttura politica, settore oggi poco interessato a raggiungere i nobili obbiettivi dichiarati, ma più propenso a mantenere e far crescere potere e privilegi. Difficile distinguere fra le ricorrenti richieste di cambiamenti finalizzati ad aumentare il potere dei singoli gruppi e quelle che invece potrebbero rappresentare una svolta effettiva. Inoltre il cambiamento dovrebbe coinvolgere i privilegi della maggioranza della popolazione, forse addirittura del 70%, quindi difficile da imporre. I grandi cambiamenti comunque sono determinati dalle necessità collettive e non dalle scelte volontarie.

Quinto – Si aggiungono alcuni problemi legati alla peculiarità del problema: le democrazie dell’Ottocento, specie in Italia, erano oligarchie borghesi dove la borghesia, l’unica con diritto di voto, disponeva sia del potere politico che di quello economico. Il suo comportamento non è stato dei più nobili e, pur trascurando la politica coloniale, ha difeso solo i propri interessi, festeggiando a fine secolo la belle époque mentre il proletariato senza diritti ha subito la più disperata miseria, mitigata solo dall’emigrazione (allora eravamo noi i migranti). Il suffragio universale (ottenuto in Italia nel ’11), cancellato dalle dittature e dalla guerra, solo nel dopoguerra è diventato reale (con l’inserimento anche delle donne), garantendo un forte sviluppo economico/sociale e la legittima la convinzione che il problema era risolto ed era impossibile andare oltre.

Il suffragio universale oggi operante – uno vale uno – e le elezioni libere sembrano corrispondere al più elevato livello di democrazia, per cui l’unico possibile miglioramento può derivare da maggiore impegno, responsabilità e cultura degli uomini coinvolti. Se questo non basta, come non basta, significa che gli uomini non sanno o non vogliono autogestirsi; conviene quindi lasciare tutto in un limbo indefinito, per evitare che nasca, come sta avvenendo, la richiesta dell’uomo forte capace di superare la paralisi operativa. L’equivoco nasce dalla mancata distinzione fra potere reale e solo formale.

Sesto – Vedremo in seguito quali strumenti sono necessari per fornire alla collettività poteri reali e non solo formali; è utile però ricordare un fenomeno analogo relativo al peso di un potere collettivo che era bellissimo però solo formale e non reale. L’incapacità di distinguere fra potere reale e formale ha infatti condizionato per più di un secolo gli intellettuali di sinistra di tutto il mondo. Marx aveva (giustamente) teorizzato la lotta di classe per garantire i diritti del proletariato e aveva identificato (meno giustamente) lo sfruttamento nella dialettica padrone/lavoratore che permetteva al padrone di “rubare” il plus valore al lavoratore. La proprietà pubblica dei i mezzi di produzione doveva quindi permettere di eliminare il padrone, far cadere lo sfruttamento e garantire la nascita di una società ugualitaria. In aggiunta e coerentemente la costituzione dei Soviet, nati dalla rivoluzione russa, realizzava strutture produttive, autogestite dagli stessi operai, che diventavano il nucleo dell’organizzazione pubblica.

Sembrava tutto risolto; non è stato così e si è impiegato quasi un secolo per riconoscerlo, mentre molti ancora oggi non ne hanno capito il perché. Anche allora era difficile superare la legittima convinzione che nessuna alternativa potesse essere socialmente migliore: tutto era pubblico senza il padrone sfruttatore e i lavoratori si autogestivano: doveva necessariamente essere “il paradiso dei lavoratori”. Sono stati necessari lunghi tempi e molti drammi personali per capire i condizionamenti dei meccanismi economici che vanificavano tali poteri e rendevano necessario sostituirli con la burocrazia di partito gestita centralmente da una feroce dittatura.

Settimo. Oggi dobbiamo quindi evitare analoga trappola culturale che considera il suffragio universale come il massimo livello democratico possibile e pone l’inaccettabile alternativa, tra mantenere tutto invariato difendendo l’indifendibile o eliminare tutto perdendo anche diritti e libertà che rappresentano il grande patrimonio della democrazia. L’attuale impianto istituzionale è infatti indispensabile e garantisce un potere reale per quanto riguarda diritti e libertà dei votanti, ma deve essere integrato perché privo degli strumenti necessari alla gestione economica pubblica e all’equità distributiva, oggi determinanti ma non previsti inizialmente perché contrari agli interessi della borghesia al potere.

Attualità della democrazia. Preso atto delle inevitabili difficoltà a cambiare e delle opposizioni che inevitabilmente si incontreranno, viene naturale porsi alcune domande preliminari: la prima è capire se realmente la crisi esiste e non assistiamo invece al solito lamentarsi del presente – mala tempora currunt- rimpiangendo un passato migliore che non è mai esistito. La seconda è se la democrazia è un sogno utopico impossibile da realizzare, o se è invece l’ultimo salto tecnologico legato all’elettronica che ha cambiato le regole del gioco, lo ha reso un obbiettivo reale non solo possibile ma anche necessario. Rispondiamo alle due domande.

Dimensione della crisi: la crisi è maggiore di quella che appare; infatti normalmente prendiamo in considerazione solo la punta dell’iceberg perché per valutare peggioramenti o miglioramenti, esaminiamo la situazione attuale e la confrontiamo con quella precedente, mentre dovremmo confrontare il mondo attuale con quello possibile e necessario; solo così è possibile cogliere l’immenso spreco di risorse dovuto all’incapacità di utilizzare le nuove possibilità oggi diventate reali e non più utopiche.

Certamente non è facile capire il mondo possibile su base scientifica senza affidarsi alla fantasia salvifica; però ci aiuta l’esame della precedente rivoluzione industriale che ci ha portato dal Medio Evo all’età moderna. Limitiamo l’analisi al meccanismo produttivo, nostro specifico aspetto di interesse, pur coscienti che esiste una forte interdipendenza cultura–produzione, dove la logica produttiva è l’elemento trainante dell’evoluzione culturale e viceversa.

La rivoluzione industriale, basata sull’introduzione della meccanizzazione e del motore nel ciclo produttivo in sostituzione della fatica umana, in cinque secoli è stata determinate per passare dal Medio Evo all’età moderna; solo nell’ultimo secolo in Europa ed in particolare in Italia sono aumentati di 10 volte (1.000%) diritti, libertà, benessere collettivo ed equità distributiva. Un proletario italiano all’inizio del ‘900 avrebbe considerato un sogno utopico le condizioni del suo omologo a fine secolo.

La rivoluzione elettronica, sviluppatasi in 50 anni, ha inserito nel ciclo produttivo il computer in sostituzione ed aiuto all’intelligenza umana e questo avrebbe dovuto garantire un analogo, se non superiore, miglioramento. Non è successo: nello stesso periodo infatti nelle democrazie avanzate l’aumento del Pil, anche se parziale misura del benessere, è stato trascurabile (in Italia nullo). Questa mancata crescita evidenzia la reale dimensione della crisi e permette di capire che qualcosa si è rotto nel nostro meccanismo politico/economico, impedendo il possibile e necessario sviluppo economico/sociale.

Capacità dell’autogestione democratica della collettività: effettivamente i comportamenti e le attuali scelte delle collettività non inducono a ben sperare ma il giudizio si ferma ad analizzare quello che accade senza risalirne al perché. Gli uomini sono capaci di autogestirsi e di effettuare scelte coraggiose e responsabili solo se hanno gli strumenti per disporre della conoscenza e del potere che le originano; in mancanza il potere è formale e possono effettuare solo, come fanno, scelte casuali indotte da altri e legate principalmente a slogan basati sulla semplificazione buono/cattivo; non effettuano scelte, ma diventano gregge e seguono le strade più facili e più condivise.

Inoltre il meccanismo democratico come vedremo, per essere reale, è spaventosamente complicato e richiede pre condizioni irrinunciabili. L’idea della democrazia nasce 2.500 anni fa in Grecia perché considerare l’uomo il centro della società, implica il suo diritto a partecipare alle scelte che ne determinavano il destino. Nasce così l’istanza di un potere legittimato dal basso, al servizio dell’intera collettività, dove tutti possono partecipare alla gestione della comunità. Istanza nobile e corretta che nei secoli è rimasta però una semplice utopia, priva di realizzazioni pratiche. L’entusiasmo iniziale dei Greci non è durato molto e nei secoli successivi poche sono stati i tentativi pratici, mai pienamente realizzati, quali l’organizzazione romana, i comuni italiani, le repubbliche marinare, fino ad arrivare alla “democrazia” dell’Ottocento.

D’altronde la produzione (specie la guerra) richiedeva una minoranza pensante e una maggioranza impiegata in lavori pesanti, estenuanti e ripetitivi basati sulla forza e non l’intelligenza; il divario di ruoli difficilmente permetteva un’organizzazione democratica. L’imposizione di una minoranza al potere era anche consona, per non dire necessaria, allo sviluppo della società; Aristotele non avrebbe potuto passeggiare amabilmente con Platone sotto i portici dell’agorà ponendo le basi della nostra cultura se non avesse avuto schiavi, marinai, artigiani e contadini che lavoravano per lui, garantendogli l’appagamento delle sue necessità pratiche e il tempo per pensare. 

Difficile comunque chiamare democrazie le precedenti soluzioni che erano invece oligarchie governate da una minoranza il cui potere era legittimato da un’investitura dal basso invece che dall’alto. Erano normalmente società meno condizionate dalla produzione agricola e dalla conseguente logica feudale ed erano comunque gestite da rigide minoranze anche se un po’ allargate rispetto alle precedenti società agricolo/feudali; si è passati forse da meno dell’1% a circa il 3% della popolazione.

Gli esclusi dei vari momenti storici: il contadino medievale e il proletario dell’Ottocento, venivano considerati strumenti di lavoro senza diritti; non partecipavano alla gestione del sistema economico/sociale e quindi non disponevano di un reale “potere d’acquisto” ma solo del minimo necessario per la sopravvivenza fisica.

Primi tentativi democratici. Inoltre il potere imposto dall’alto con la forza, finché è possibile, è più semplice e lineare per cui sono necessarie altre pre condizioni, cioè non solo una certa omogeneità nella collettività ma anche una forza che lo imponga; in mancanza la deriva autoritaria non partecipata, prevale come è stato per i Comuni italiani trasformatisi in signorie.

I primi tentativi di democrazia si manifestano solo nella seconda parte del’900 perché per la prima volta incominciavano a manifestarsi le due condizioni sopra viste: lo sviluppo tecnologico, eliminando buona parte del lavoro faticoso e ripetitivo, aveva allargato la parte di collettività capace di gestire le nuove tecnologie; la lotta di classe minacciava il potere dell’oligarchia borghese e rivendicava i diritti del proletariato. Il suffragio universale ottenuto a inizio’900 (in Italia nel ’11), ha scatenato dittature e guerra creando un periodo che aveva molte affinità con l’attuale; è diventato reale solo nel dopoguerra.

Anche nella I metà del ‘900 si pensava che le democrazie non potessero più reggere e che le dittature fossero ormai vincenti: l’economia stagnava, non garantiva il benessere, mentre esplodeva la disoccupazione con una situazione intollerabile di miseria del proletariato. Il meccanismo che determinava tale disfunzione, con il senno di poi, è facilmente identificabile: l’evoluzione tecnologica (il trattore, il telaio meccanico, ecc.), prevalente già nell’Ottocento, portava un’automatica crescita della produttività, ma la produzione non cresceva perché avrebbe richiesto un aumento della domanda globale, realizzabile solo attraverso un aumento dei salari. 

Questo contrastava con gli interessi della borghesia; avrebbe implicato infatti il riconoscimento dei diritti del proletariato garantendo anche a loro il “potere d’acquisto” e facendo cadere la “democrazia borghese” già contradditoria a livello del solo nome. Solo nella II metà del ‘900 si è incominciato a costruire la società post borghese. Le dittature e la guerra sono state il prezzo che la collettività ha pagato per la volontà di ritardare l’evoluzione; solo dopo la guerra, con i lunghi tempi della storia, è diventata possibile, la costruzione di una prima “democrazia” reale. Il conseguente utilizzo delle immense risorse precedentemente non utilizzate ha permesso alle democrazie avanzate di realizzare lo sviluppo produttivo e il benessere economico/sociale diffuso, rendendole vincenti a livello mondiale.

Attualità della democrazia: verso fine secolo però l’evoluzione produttiva, grazie all’elettronica, è ulteriormente cresciuta, senza far crescere parallelamente libertà, diritti e benessere collettivo; qualcosa nel sistema economico/sociale non ha funzionato e ha bloccato il meccanismo. Si è pensato che la maggiore complessità del sistema produttivo rendesse impossibile a una collettività priva di adeguata conoscenza, la partecipazione alla gestione produttiva; rispuntava così la necessità dell’uomo forte.

La situazione reale è invece opposta; l’evoluzione tecnologica ha reso infatti la democrazia un meccanismo sempre più insostituibile, perché ha attenuato ulteriormente la separazione fra minoranza che pensa e maggioranza che esegue lavori faticosi e ripetitivi; la necessità di capire ha coinvolto strati sempre più ampi della produzione e la conoscenza richiesta è diventata sempre meno compatibile con una gerarchia delle dittature non condivisa ma imposta dall’alto con la forza. Per la prima volta infatti nella storia umana non è più necessario un lavoro faticoso, ripetitivo e con scarso contenuto conoscitivo, che rendeva conveniente, per non dire necessaria, una rigida gerarchia e l’impiego di soggetti sottopagati, contadino, operaio o schiavo.

Il salto tecnologico dell’ultimo mezzo secolo ha rovesciato la situazione accentuando l’interdipendenza conoscenza/produzione con la produzione che nasce dalla conoscenza, a sua volta figlia della produzione. I paesi avanzati si alimentano e producono una conoscenza diffusa, che è incompatibile con la dittatura perché presuppone la libertà. L’impiego del soggetto sottopagato non rappresenta più un vantaggio ma bensì un costo economico mentre l’imposizione gerarchica richiede una violenza crescente e intollerabile.

Il prevalere delle dittature non evidenzia quindi la crisi della democrazia ma solo della logica del nostro impianto istituzionale, pensato tre secoli fa dall’Illuminismo francese in un paese agricolo per legittimare e consolidare la nascente borghesia. È facile pensare che non sia più idoneo a gestire l’economia di una società post borghese e post industriale, che certamente richiede uno strumento partecipativo più avanzato, che ieri era impossibile mentre diventa oggi possibile e necessario.

Inoltre la maggiore capacità produttiva, in buona parte basata sull’economie di scala, richiede un ulteriore crescita della domanda globale, che è impossibile senza una parallela crescita dei salari, del benessere collettivo e dei diritti. Si ricrea la contradizione che ha fatto saltare l’economia a cavallo fra ‘800 e ‘900: aumento di produttività senza aumento di produzione per mancanza di domanda globale. La Cina per superare questo condizionamento è diventata la “fabbrica del mondo” perché il mercato interno non è stato sufficiente ad assorbire la sua produzione. Questa strategia ha fronteggiato l’emergenza ma non risolve il problema a medio termine.

Situazione attuale: in sintesi abbiamo sottolineato che la crisi è reale e superiore alla nostra comune percezione; che la democrazia è possibile, e per la prima volta ha operato nella II metà del ‘900 garantendo, come vedremo, insperati livelli di diritti, libertà e benessere collettivo che hanno reso le democrazie vincenti; che infine il salto tecnologico dell’elettronica rende la democrazia ancora più necessaria perché accentua l’interdipendenza produzione – conoscenza e quindi richiede la libertà incompatibile con la dittatura.

Però l’evoluzione virtuosa della II metà del ‘900 si è interrotta verso la fine del secolo alimentando l’attuale crisi che, rimettendo tutto in discussione, apre a livello mondiale l’alternativa tra un futuro meraviglioso o un terribile dramma. È quindi necessario e doveroso capire cosa si è rotto nel meccanismo economico/istituzionale per cercare di far prevalere l’evoluzione virtuosa.

Legittimazione: Vorrei preventivamente giustificare la mia presunzione di invadere il campo di economisti, politici e sociologi senza disporre dei necessari titoli legittimanti; però di fronte alla forte evoluzione degli ultimi anni e all’elevata interdipendenza fra settori di competenza diversa, forse un imprenditore, con minore competenza nei singoli campi, ma punto di sintesi del processo produttivo può cogliere con più facilità i condizionamenti e le interdipendenze fra i diversi campi del processo economico/politico.

La mia conoscenza non si è infatti consolidata nell’Università né nell’anno di specializzazione alla London School of Economics, ma negli oltre cinquant’anni di master spesi nell’ “Università del porto di Genova” che non mi hanno fatto ottenere la libera docenza, ma mi hanno permesso di sperimentare e patire, con 50 anni di anticipo, l’incapacità della struttura pubblica di assolvere al proprio ruolo, la sua funzione oggettivamente di destra e le molte disfunzioni che si sono ingigantite nell’attuale meccanismo economico/sociale.

Inoltre l’argomento trattato riguarda le disfunzioni politiche, campo nel quale conta non tanto ciò che si elabora nelle segrete stanze del sapere, ma ciò che condiziona l’opinione pubblica. L’esame quindi fatto da un non addetto ai lavori, con un linguaggio un po’ approssimativo ma più comprensibile, potrebbe aiutare a meglio capire i preconcetti che condizionano la nostra conoscenza collettiva e determinano le scelte politiche.             

CAP. II – NECESSITA’ E LOGICA DEI MECCANISMI DEMOCRATICI                    

Logica della democrazia. La democrazia costituisce la sintesi della cultura europea e affonda le sue radici nel mondo greco; riconoscere il valore dell’uomo in quanto tale, implica infatti il suo diritto a gestire la propria vita, il proprio futuro, ed essere inserito nella collettività che gestisce collegialmente tutto ciò che è comune. Garantire però a tutti i membri della collettività una dignitosa sopravvivenza, implica l’esistenza del meccanismo democratico perché ciascuno di noi, singolo, gruppo o classe, difende principalmente i propri interessi e quindi gli esclusi, privi di diritti, vengono considerati semplici strumento di lavoro, mantenuti al livello della pura sopravvivenza, come è stato il contadino medievale e il proletario dell’Ottocento.

È utopistico sognare il governante illuminato al servizio della collettività; le sue dichiarazioni sono semplici affermazioni di facciata, necessarie a mascherare la ben diversa realtà delle dittature. Salvo in rari momenti eroici, il singolo difende gli interessi della collettività solo se esiste un meccanismo di controllo reale che glielo imponga. Questo meccanismo è il nucleo dell’impianto istituzionale democratico.

L’istanza democratica è quindi una dichiarazione di principio, nobile e necessaria, ma rimane un semplice sogno utopico se è priva degli strumenti necessari a trasformarla in una prassi reale. Essa è costituita da due parti: un’istanza della collettività e uno strumento in grado di soddisfarla. La prima deve appartenere alla cultura e alla necessità dei singoli popoli, la seconda invece è una tecnologia, come il computer o l’elettricità, grazie alla quale diventa possibile soddisfare le istanze sociali. Il principio che la democrazia non si esporta vale solo per l’istanza di democrazia; oggi però è molto diffusa nelle popolazioni (non nei Governi) di tutto il mondo. Lo testimoniano la primavera araba e i mille movimenti libertari, che non hanno però potuto prevalere perché finora manca lo strumento idoneo a trasformare l’istanza in consolidata prassi comportamentale. 

Nucleo del problema è infatti l’identificazione di un meccanismo idoneo a raggiungere gli obbiettivi richiesti; quando il nostro impianto istituzionale funzionava è stato esportato con successo in sempre nuove parti del mondo e l’Occidente ha controllato con propri osservatori la validità democratica delle nuove istituzioni. Oggi non si esporta più perché è un prodotto avariato, uno strumento rotto; resiste con fatica nei tradizionali paesi democratici per la solidità degli impianti esistenti (vedi il fallito colpo di Stato di Trump) e per la ricchezza accumulata che permette di sopportare l’immenso sperpero di ricchezze prodotto dall’inefficienza pubblica. Certamente non è esportabile là dove ancora non esiste e mancano tutti i presupposti per istallarla.

Strumenti democratici. Preso atto che la democrazia non si realizza con una semplice dichiarazione di principio, ma necessita degli strumenti idonei, perché tutti i dittatori si dichiarano governanti illuminati al servizio della collettività; il punto diventa quindi identificare cosa non funziona nella nostra attuale struttura istituzionale e come intervenire per renderla nuovamente funzionante. Centrare l’obbiettivo significa disporre di uno strumento produttivo che, come la tecnologia del motore o del computer, diventa dirompente ed esportabile in tutto il mondo.

I meccanismi attuativi della struttura democratica sono però molto complessi perché le decisioni di vertice non possono fare capo alla collettività (come nei tentativi della democrazia greca), ma neppure essere delegate senza controllo; devono quindi esistere strumenti idonei che forniscano a ciascuno il potere e la conoscenza necessari a esercitare le scelte di propria competenza. Si tratta quindi di un complicato meccanismo di delega/controllo tra base e vertice che secondo il tipo di delega dovrà avere modalità diverse e quindi potrà essere diretto o dovrà venire  esercitato attraverso una catena gerarchico/conoscitiva.

L’obiettivo della democrazia di massimizzare il benessere collettivo e l’equità distributiva necessita sia di un omogeneo livello di diritti che di un meccanismo economico capace di rendere tali diritti reali, realizzando le necessarie condizioni economico/sociali. Le rivoluzioni mancate, specie quelle del ‘900, sono sempre caratterizzate dall’ottenimento di elevati diritti formali, privi però di una struttura economica in grado di garantirli; emblematica è la proprietà pubblica dei mezzi di produzione: massima uguaglianza formale, minimo contenuto reale!

Diritti e meccanismi economici attuativi sono fra loro interdipendenti ma devono essere esaminati singolarmente perché gli strumenti utilizzabili sono condizionati da logiche opposte e confondere i due momenti, come avviene oggi, rende il problema irrisolvibile. L’odierna crisi mondiale delle democrazie nasce dal sottovalutare, per non dire ignorare, tale distinzione e utilizzare, anche per i meccanismi economici, gli strumenti pensati e validi solo per i diritti.

Riconoscimento dei diritti. È la parte che il nostro impianto istituzionale riesce a svolgere meglio ed è anche quella più facile, perché i diritti dei singoli derivano da un rapporto diretto base/vertice, sono fondamentalmente stabili e si evolvono lentamente nel tempo. La tripartizione dei poteri è stata pensata dalla borghesia proprio allo scopo di riconoscere i sui diritti superando quelli feudali: il parlamento a maggioranza borghese stabiliva le leggi (diritti) il governo le faceva rispettare e la magistratura decideva sulle vertenze.

Il rapporto diretto base/vertice con cadenza periodica è consono all’evoluzione graduale; inoltre l’elettore (prima la sola borghesia poi la collettività) conosce i diritti da rivendicare, può controllare l’operato degli eletti, sostituendo i non idonei.  Il sistema ha assolto il proprio ruolo, prima legittimando diritti e libertà della borghesia e poi garantendo una diffusa uguaglianza di diritti, tale da rendere oggi corretta la dichiarazione: “la legge è uguale per tutti”. La Costituzione italiana a questo livello è una delle più avanzate e con le successive leggi garantisce, almeno a livello formare, un elevato livello di diritti per tutti.

La collettività ha il potere di stabilire qualsiasi livello di equità distributiva, con l’unico vincolo di disporre del meccanismo produttivo idoneo a fornire le risorse necessarie per rendere reale e non solo formale il diritto riconosciuto. Infatti un diritto che il meccanismo produttivo non riesce a soddisfare, rimane un equivoco sogno utopico, potenzialmente molto pericolo perché spesso legittima i peggiori arbitri. Così è stata la proprietà pubblica dei mezzi di produzione che offriva una totale uguaglianza formale senza contenuto reale.

La borghesia, quando con l’Illuminismo teorizzò la tripartizione dei poteri per legittimare e facilitare il proprio affermarsi, non voleva l’equità distributiva né il controllo pubblico per garantirla, perché danneggiavano i propri interessi di classe privilegiata; la mancanza di diritti del proletariato era uno dei principali elementi necessari al benessere e ai privilegi borghesi. Non è quindi stato previsto lo strumento per garantire queste funzioni e nessuno, perdurando il potere borghese, ha valutato la necessità di integrare l’attuale meccanismo istituzionale, perché risultava ancora consono agli interessi dei nuovi detentori del potere; inevitabile che la crisi sia esplosa al crescere del peso degli elementi mancanti. 

Struttura produttiva. Diverse e ben più complesse sono le logiche che permettono al meccanismo produttivo di soddisfare le necessità della collettività rendendo reali i diritti acquisiti. Il singolo membro della collettività, quando esprime le proprie necessità come utente, deve avere gli strumenti per capirle, valutarle, esprimerle, imporle al produttore, e controllare che vengano soddisfatte al meglio. In mancanza di questo complesso meccanismo decide il produttore, che però non dispone né degli strumenti per conoscerle, né della convenienza a soddisfarle e quindi privilegia le proprie necessità contrarie a quelle della collettività/utente; opera così senza controllo secondo la logica della rendita, analoga a quella dittatoriale.

Infatti la dialettica produttore/collettività-utente condiziona il benessere diffuso ed è il nucleo della dialettica sociale; finora è stata sottovalutata perché coinvolge l’intero ciclo economico, produzione/utilizzo cioè collettività/utente senza limitarsi, secondo la logica marxista, al solo momento della produzione. Si tratta, come vedremo, del principale equivoco culturale che alimenta le contraddizioni della sinistra, ed è fonte di pesanti errori valutativi.

Ciascuno infatti difende i propri interessi ed è quindi inevitabile che il produttore soddisfi le proprie necessità, trascurando quelle prioritarie della comunità/utente che avrebbe dovuto soddisfare, se manca un meccanismo che le imponga al produttore. Il discorso è semplice ma poco considerato perché contrasta con una prevalente logica marxista che focalizzava, come nucleo dell’evoluzione sociale la dialettica padrone/lavoratore cioè metà del ciclo, il solo momento produttivo. Vedremo che la prassi derivata da questa posizione era corretta in quello specifico momento storico, ma nella realtà odierna è diventata una delle principali contradizioni che ostacola un’evoluzione virtuosa.

Mi sono imbattuto nel problema all’inizio della mia attività lavorativa quando ho dovuto scontrarmi con la Compagnia Portuale del porto di Genova, caratterizzata da un’autogestione simile a quella adottata dai rivoluzionari russi con i Soviet, per diventare il nucleo della struttura pubblica post borghese. Erano 8.000 uomini autogestiti che rappresentavano l’aristocrazia operaia, grande tradizione – il capo si chiama Console-, preparati e socialmente sensibili; gestivano bene le proprie necessità, ma trascuravano invece quelle prioritarie del Nord Italia che avrebbero dovuto servire ma, mancando la concorrenza, non venivano imposte. La legge di riforma portuale (84/94) ha dovuto cancellare il monopolio per garantire questo servizio essenziale al Nord Italia.

La dialettica domanda/offerta rappresenta infatti il nucleo dei rapporti produttivo/sociali, finalizzati a soddisfare le necessità della collettività/utente e garantire un elevato livello economico /sociale. Infatti nel momento in cui la produzione non è più la “farina del diavolo” al servizio della sola borghesia, come lo era ai tempi di Marx, il suo sviluppo determina la possibilità di soddisfare le necessità della collettività/utente, presupposto di qualsiasi sviluppo sociale; di conseguenza diventa determinante per la collettività/utente la sua capacità di imporsi sul produttore (pubblico o privato non cambia)

Nel meccanismo produttivo capitalista lo strumento di cui dispone la collettività/utente per soddisfare le proprie necessità è il mercato che garantisce il potere d’acquisto della collettività/utente e rappresenta il punto più avanzato, per non dire l’unico, di partecipazione democratica a livello economico; permette infatti alla collettività/utente di esprimere le proprie necessità economiche e imporle al produttore. Esse, diversamente dai diritti, come vedremo sono costituite da migliaia di istanze sparse nel territorio, continuamente variabili, che richiedo una struttura diffusa sul territorio, capillare, elastica, capace di recepirle, soddisfarle e adeguarsi in tempo reale.

Le elezioni pensate per garantire i diritti non possono svolgere questo ruolo; sono infatti dirette base/vertice, periodiche e se usate come oggi a questo scopo diventano una semplice delega in bianco al produttore. Il meccanismo per permettere al singolo individuo di effettuare una reale scelta, trasformarla in ordine e controllare che venga eseguito al meglio, è infatti molto complesso e converrà esaminarlo più in dettaglio.

L’acquisto: si tratta di un’operazione quotidiana così banale da sembrare di non dover richiedere un approfondimento ed è invece il nucleo del meccanismo produttivo e molte sono le regole e i condizionamenti necessari al suo funzionamento. Partiamo dall’ipotesi più semplice di un acquisto individuale cioè quello che il singolo membro della collettività/utente effettua su un prodotto destinato a soddisfare le sue necessità quali auto, casa, elettrodomestico, cibo, ecc.

Si tratta di una necessità che riguarda il singolo acquirente; conosce quindi cosa vuole, ma non basta perché per effettuare una vera scelta deve preventivamente sapere molte cose, cioè quali risorse dispone (il proprio reddito), le caratteristiche e i prezzi non solo del prodotto richiesto ma anche di tutti gli altri che potrebbero in alternativa meglio soddisfare le sue necessità: un televisore o un forno a micro onde? Solo così può effettuare una scelta e non limitarsi a un mi piace espressione tipica dell’impotenza.

Deve a questo scopo avere un luogo, reale o virtuale, dove esprime la propria scelta e un soggetto che fornisce tutte e informazioni necessarie e recepisce la scelta trasformandola in un contratto giuridicamente vincolante per entrambe le parti della vendita/acquisto, che dà all’acquirente il diritto di disporre dello specifico prodotto, controllando che caratteristiche e tempi di consegna siano quelli concordati. Solo questa complessa procedura permette al singolo membro della collettività/utente non solo di scegliere il prodotto ma anche il produttore che a suo parere ha realizzato l’ottimizzazione produttiva raggiungendo, forse inconsciamente, il principale obbiettivo del meccanismo produttivo.

I vincoli che condizionano questo complesso processo sono svariati. Primo – il produttore deve valutare e anticipare le necessità della collettività e sulla base delle proprie valutazioni realizzare la produzione; la collettività/utente poi giudicherà i risultati ottenuti e deciderà se premiarlo con utili e sviluppo oppure punirlo con il fallimento. Secondo – la collettività deve avere un potere di imposizione e controllo per costringere al produttore di soddisfare le sue necessità e non le proprie. Terzo – il produttore deve essere organizzato sul territorio e disporre di un collegamento continuo con l’utente per recepire in tempo reale le sue istanze sempre variabili. Quarto – il collegamento non deve essere base/vertice, che sarebbe solamente formale, ma base/base nel quale la base del produttore si interfaccia con il singolo utente per inserire all’interno della catena gerarchica/conoscitiva dell’azienda, le conoscenze e i vincoli relative all’acquisto.

L’organizzazione aziendale. Il nucleo di questo complesso processo è appunto l’azienda, diffusa sul territorio e costituita da una piramide gerarchico/conoscitiva dove la base recepisce le singole e specifiche necessità, le elabora per la parte di propria competenza e trasmette ai livelli superiori le rimanenti, affinché livello per livello possano risalire ai vertici aziendali. I vertici, ricevute le informazioni di propria competenza, effettuano le scelte necessarie da cui si origina coordinamento e potere che sempre attraverso i vari livelli discende dal vertice alla base. Questo complesso meccanismo è necessario per ottenere che le necessità prioritarie della collettività/utente prevalgano su quelle subordinate del produttore e che venga premiata l’ottimizzazione produttiva raggiunta.

Ne deriva quindi che l’Autorità ha l’obbligo di stabilire le regole e farle rispettare per quanto riguarda i vincoli comportamentali, sindacali, fiscali, ecologici, di sicurezza ed altro, ma poi deve lasciare il produttore totalmente libero per quanto riguarda la strategia produttiva; il suo vero vincolo/obbiettivo riguarda il risultato ottenuto perché la produzione è scarsamente programmabile ma frutto di libertà, imprevedibilità, casualità ed intelligenza. È come il gioco del calcio: devono esserci regole precise e un arbitro che le fa rispettare, per evitare che il gioco degeneri in violenza, ma i giocatori devono operare in totale libertà e decidere la strategia di gioco secondo le capacità, l’estro e la casualità del momento.

L’obbiettivo da raggiungere è infatti l’ottimizzazione produttiva, che comunemente non viene considerata con un adeguata attenzione, mentre è il nucleo del nostro sistema economico/sociale; infatti da essa derivano due elementi fra loro interconnessi e ugualmente fondamentali; la crescita della conoscenza e delle risorse disponibili. Sempre di più il nucleo della conoscenza diventa il “fare”, ma non basta la ripetizione degli atti perché bisogna ottimizzare il “fare”; discorso vale per qualsiasi attività quale lo sciatore, l’architetto, il medico, ecc. Vale a maggior ragione a livello aziendale dove, come vedremo, non riguarda solo i vertici ma progressivamente riguarda tutta la catena gerarchica/conoscitiva dell’azienda.

La crescita delle risorse è infatti propedeutica e strada obbligata per realizzare il benessere collettivo e l’equità distributiva. Esiste però un diffuso rifiuto delle necessità produttive per cui a questo argomento dedicheremo il prossimo capito. Qui ci basta osservare che un qualsiasi oggetto di uso comune quale un telefonino, auto, computer contiene al suo interno un tale know how che spesso vale di più degli impianti della stessa azienda che lo ha costruito ed è il risultato di decine, spesso centinaia di migliaia, di uomini finalizzati allo stesso obbiettivo e inseriti in una catena gerarchica/conoscitiva capace di integrarli e coordinarli per fornire a ciascuno, per la parte di propria competenza, la conoscenza e il potere necessari in modo che la loro intelligenza e fantasia creativa interagiscano e contribuiscano al risultato finale.

In ultimo il meccanismo di ottimizzazione controllato dal mercato limita anche il profitto imprenditoriale che in un regime di reale concorrenza rimane molto contenuto e rappresenta un 2%-3% del valore del prodotto e. A fronte di tale cifra l’imprenditore deve identificare le necessità della collettività/utente, organizzare la produzione per soddisfarle al meglio e pagare con il fallimento l’errore valutativo; ben diversa è la situazione della mano pubblica che preleva più di un 50% del prodotto (Pil), ignora le necessità della collettività, fa poco per soddisfarle e nessuno paga per gli errori commessi. Non è errato affermare quindi che l’imprenditore “regala” e non “ruba” risorse alla collettività perché il suo valore aggiunto è superiore al suo costo.

Teorie marxiste: funzione e degenerazione. Sulla base di quanto detto sarebbe però sbagliato condannare le teorie marxiste che invece, nel quadro di riferimento originale, mantengono una totale validità, che viene a mancare solo utilizzandole in una situazione radicalmente cambiata. Marx aveva infatti capito che la distribuzione delle risorse è determinata dal grado di potere, cioè dai diritti dei soggetti coinvolti e quindi per abbattere l’inaccettabile miseria del proletariato era necessaria l’uguaglianza di diritti ottenibile solo con la lotta di classe.

Il concetto, pur corretto, non era di facile comprensione; più facile sostituirlo in pratica con la più comprensibile teoria del “plus valore” – “non ti pagano una parte del lavoro fatto”. La teoria, pur utilizzando una logica errata (lo sfruttamento nasce a livello politico e non tecnico-aziendale), ha permesso una prassi corretta, trasformando la lotta di classe in lotta sindacale; corretto a quei tempi per la totale identità fra proletario/lavoratore da una parte e borghese/padrone dall’altra.

Era anche corretto considerare la produzione “farina del diavolo”, perché non solo non serviva al proletariato, mantenuto a livello di pura sussistenza, ma ogni aumento di produttività (maggiore efficienza), non aumentava la produzione e il benessere collettivo ma della disoccupazione ed espelleva dal ciclo produttivo parte del proletariato, costretto ad emigrare. Il posto di lavoro era anche l’unico luogo dove il proletariato poteva rivendicare il diritto d’esistere ed ottenere un salario che non rappresentasse la pura sopravvivenza. In questa fase e fino a metà del ‘900, la lotta sindacale, quale mezzo della lotta di classe, con il supporto di sinistra e sindacati è stata la forza dirompente dell’evoluzione positiva che ha costruito la democrazia e il benessere collettivo.

La contradizione si è evidenziata nella fase successiva quando, ottenuta la parità di diritti, l’obbiettivo è diventato non solo un’equità distributiva sul posto di lavoro ma soprattutto un meccanismo produttivo in grado di garantire a livello economico i diritti acquisiti.

Si sono così rovesciati i termini di riferimento: il lavoratore è diventato un produttore le cui necessità sono contrarie a quelle prioritarie della collettività/utente e l’efficienza produttiva è diventato l’elemento portante dello sviluppo occupazionale e del benessere collettivo. Il generale disinteresse per questi aspetti produttivi implica che il problema venga affrontato più diffusamente nel prossimo capitolo per valutare l’importanza dell’ottimizzazione produttiva.

Cap. III –OTTIMIZZAZIONE PRODUTTIVA                                        

Obbiettivo produzione. Abbiamo visto che l’obbiettivo dell’organizzazione economica consiste nel raggiungere l’ottimizzazione produttiva, strada obbligata per sviluppare la conoscenza e le risorse economiche necessarie a qualsiasi programma di benessere collettivo ed equità distributiva. Siamo convinti di quanto affermato, ma sappiamo che questa valutazione è scarsamente condivisa; soffermiamoci quindi su questi punti, fonte di troppi equivoci interpretativi. Vediamoli singolarmente.

Crescita conoscenza: la necessità della conoscenza è meno discussa, ha radici antiche, basta ricordare Dante, “nati non foste a viver come bruti ma per seguir virtude e conoscenza”, però comunemente si tendono a considerare le fonti della conoscenza i luoghi a questo titolati, scuole, università ed altro. Salvo casi particolari, rappresentano invece solo un passaggio propedeutico necessario ma non sufficiente perché deve seguire la conoscenza del “fare”; vale per qualsiasi attività, quale lo sportivo, il medico, l’architetto, il militare, cioè chiunque svolga una qualsiasi attività. Comunemente sottovalutiamo questo aspetto per l’attività economica collettiva, non individuale, ma forse proprio a causa dello scarso interesse riservato alla crescita della produzione.

Crescita della produzione: per condizionamenti storici, è raramente vista come un fenomeno positivo e questo falsa la maggioranza delle analisi. Vediamo i principali condizionamenti. Il primo è come sempre di origine marxista che continua a influenzare il nostro inconscio meccanismo valutativo; abbiamo visto che Max aveva perfettamente ragione a considerare la produzione “farina del diavolo” perché serviva solo alla borghesia e non aiutava ma peggiorava la situazione del proletariato. Quando dopo la guerra, con il suffragio universale, la produzione è stata messa invece al servito la collettività, la sua crescita è diventa uno dei principali strumenti per il benessere collettivo e l’equità distributiva.

Priva di senso è infatti l’alternativa della “decrescita felice”, abbinata a una più equa distribuzione delle risorse, perché diventa il solito discorso demagogico che cerca il “cattivo” e non le cause delle disfunzioni e rimane quindi privo di contenuto reale sia sociale che tecnico. Sotto il profilo sociale è più facile aumentare la produzione del pane per garantirlo a tutti che togliere parte del pane a chi ce l’ha per darlo a chi non ce l’ha; comunque parlando di equità sociale il discorso potrebbe avere un minimo di significato all’interno delle attuali democrazie avanzate ma, come vedremo, sarebbe una presa in giro di fronte alla disperazione degli altri.

Sotto il profilo tecnico comunque la possibilità della “decrescita felice” presupporrebbe che si fermasse parallelamente l’evoluzione tecnologica; il presupposto non essendo possibile, si verrebbe a ricreare la situazione dell’Ottocento, quando la produttività cresceva ma la produzione rimaneva costante, per cui cresceva non il benessere ma la disoccupazione con fette crescenti del proletariato che venivano espulse dal ciclo produttivo e costrette ad emigrare. Situazione decisamente poco felice. Oggi, non per scelta ma a causa della rottura del meccanismo produttivo, assistiamo nuovamente a un’insufficiente crescita, decisamente “non felice”, come vedremo affrontando specificatamente i due punti cioè l’occupazione e la crescita.

Altro elemento di opposizione alla crescita produttiva deriva dalla complessità delle regole dell’economia, dove la realtà è spesso l’opposto di quella che appare per cui è difficile orientarsi ed è necessaria la conoscenza del “fare”, possibile solo attraverso un serio inserimento organizzativo. La mancanza di una struttura pubblica che traguardi l’intero sistema economico e le sue strategie, rende difficile la sintesi dei problemi economici globali, penalizzando la conoscenza e l’intero sistema economico/politico. Quando il nostro impianto istituzionale è stato pensato si ipotizzava infatti che l’Esecutivo si dovesse limitare a gestire la “forza”, cioè ordine pubblico e guerra, nonché, in parte e di conseguenza, alcune infrastrutture essenziali, quali strade, ferrovie, porti, corredo urbano, la cui costruzione il Governo appaltava ai privati e non realizzava direttamente. L’attività economica era infatti quasi interamente gestita dal capitalismo privato.

Questo impianto iniziale è stato parzialmente modificato nel tempo per adattarsi alle nuove necessità senza però ottenere i risultati necessari sia per i condizionamenti dell’impostazione originale sia, e di conseguenza, perché non si è riusciti a realizzare un meccanismo istituzionale di controllo reale dei risultati, continuo ed esterno rispetto al produttore, come avviene con il mercato nella produzione capitalistica. Si è pensato di supplire a questa mancanza imponendo molti controlli formali che però non possono raggiungere il risultato e sono spesso negativi perché deresponsabilizzano i soggetti coinvolti e risultano incompatibili con l’efficienza produttiva fatta di casualità, intelligenza e libertà.

Come vedremo nel prossimo capitolo, il Governo, con i suoi Ministeri, è diventato uno strumento di controllo, necessario se funziona, ma che svolge più la funzione di consulente idoneo a dare saggi consigli, ma privo di quell’inserimento sul territorio in tempo reale necessario per gestire un complesso meccanismo economico che oggi, come vedremo, dovrebbe coinvolgere una parte dominante della produzione (Pil) stimabile intorno al suo 70%. In cifre per l’Italia 1.400 miliardi anno pari a 2.000 € pro capite mese, gestiti senza controllo reale. Pochi Enti pubblici gestiscono una parte dell’attività economica globale, quali le banche centrali, ma sono gestioni parziali, limitata ad attività specifiche, che non modificano il discorso generale. 

I politici possono quindi conoscere problemi specifici ma non hanno gli strumenti per cogliere le interrelazioni che condizionano l’intero sistema, perché a livello globale manca una catena gerarchica/conoscitiva, come l’azienda, che fornisca a ciascuno la conoscenza e il potere necessario a capire e ottimizzare l’attività di propria competenza. L’analisi rimane quindi molto limitata per cui quando la struttura pubblica si interessa allo sviluppo o al salvataggio di una fabbrica non esamina il ruolo che essa può svolgere nel sistema Paese ma solo l’occupazione che si può salvare o creare. Anche per l’acciaieria di Taranto si è discusso di posti di lavoro non della necessità dell’acciaio; i primi si vedono e riguardano l’oggi di persone specifiche presenti, la seconda interessa il domani, non appare, è poco misurabile, interessa una collettività lontana non in grado di valutare e capire.

Ne deriva che i politici e l’opinione pubblica non hanno nell’attuale struttura politico/sociale, la possibilità di capire le interconnessioni economiche e devono necessariamente ricorrere a slogan quasi sempre sbagliati ma semplici e comprensibili da tutti. In questa situazione diventa difficile quasi impossibile la crescita del benessere collettivo e dell’equità distributiva. Si alimentano anche le contradizioni della sinistra costretta nel vicolo cieco della difesa del lavoro e della lotta sindacale che come vedremo era corretta in passato mentre oggi insegue obiettivi contraddittori e marginali, mentre solo l’efficienza produttiva può garantire la sopravvivenza, lo sviluppo sociale, la difesa del lavoro e della sua dignità. Vediamo le principali contraddizioni.

Occupazione. In campo economico tutti i fenomeni sono fra loro interconnessi e una qualsiasi disfunzione moltiplica le inefficienze degli altri settori. Partiamo dai dati: l’aumento di produttività dell’elettronica è elevatissimo e può essere valutato di circa 10 volte (1.000%), come è già avvenuto nei secoli precedenti con l’introduzione del motore nel ciclo produttivo. Un semplice calcolo matematico può confermare che, se la produzione, come è stato, rimane costante, la disoccupazione dovrebbe coinvolgere il 90% della popolazione. Prudenzialmente stimiamo la disoccupazione potenziale del 70%; valore analogo a quello riscontrato nell’Ottocento quando il 50% della popolazione italiana ha dovuto emigrare.

Questa drammatica situazione viene nascosta con dati falsanti; si parla infatti per l’Italia di 23 milioni di occupati e 2,5 di disoccupati quindi una percentuale dell’11% non drammatica e contenibile, considerando che un 5% è fisiologico. I dati non tengono conto però di 12,5 milioni di inoccupati, di 21 milioni che potrebbero essere parzialmente occupati, della cassa integrazione, e altre coperture sociali. Sommando disoccupati, inoccupati, 50% degli occupabili, la cassa integrazione e parte dell’occupazione pubblica, vediamo che il dato è credibile; d’altronde alcuni economisti già incominciano a valutare i non occupati, per non chiamarli disoccupati, un 50% della forza lavoro.

Sono valori drammatici perché il lavoro non garantisce al singolo solo il salario ma anche una funzione, il ruolo sociale e l’irrinunciabile spazio conoscitivo. I disagi diffusi, specie nei giovani, spesso originano da questa realtà. È evidente che non riuscendo a uscire da questa situazione, indipendentemente dalle lodevoli dichiarazioni di principio non c’è lavoro né dignità, né crescita della conoscenza; si crea una società non in grado di autogestirsi che diventa preda del primo demagogo di turno.

Comunque grazie a strutture e ricchezze stratificate, da noi la situazione è ancora gestibile, mentre nessuna protezione, né ricchezza accumulata esiste nel terzo mondo; la disoccupazione esplode in tutta la sua violenza in forma ancora maggiore. L’evoluzione tecnologica infatti è interamente gestita dai paesi avanzati, per cui mentre da noi trattore e computer si sono affermati e sviluppati progressivamente garantendo l’occupazione necessaria per pensarli e produrli. Nei paesi sottosviluppati i prodotti arrivano già evoluti e pronti all’uso con potenzialità elevata e marginale occupazione indotta: l’impiego di un trattore implica la perdita immediata di centinaia di posti di lavoro.

La miseria, la disoccupazione, la crisi climatica riducono lo spazio di sopravvivenza economico/sociale degli esclusi e lasciano come unico sbocco aderire a qualche milizia che, finanziata da qualcuno e unificata da qualche ideologia/religione, risulta a disposizione di qualsiasi dittatore che vuole allargare il proprio potere. Sono tutti moltiplicatori a favore delle dittature che hanno la possibilità di imporsi con la forza su altri paesi sia per legittimare la propria funzione, sia per ricuperare le risorse mancanti.

Equilibrio mondiale. L’aspetto internazionale è quello che caratterizza maggiormente la necessità/possibilità dell’evoluzione perché il terzo mondo da una parte è una polveriera pronta ad esplodere, dall’altra è la realtà che maggiormente potrebbe fruire dal futuro cambiamento. Partiamo da alcuni dati sulla situazione, pur consci della scarsa attendibilità del Pil come indice di benessere; abbiamo che meno di un sesto della popolazione mondiale pari a circa 1 miliardo di individui fruisce di circa metà delle risorse, gli altri cinque sesti (circa 7 miliardi), vivono in condizioni economico/sociale disperate; un terzo (meno di 3 miliardi) è misero ma con la struttura pubblica stabile anche se dittatoriale; il 50% del totale invece (quasi 4 miliardi) oltre a vivere in totale miseria subisce regimi totalmente instabili, senza diritti e da oltre 30 anni convive con scontri per bande, guerra e violenza.

Situazione chiaramente inaccettabile che non può durare ed è caratterizzata come tutti i fenomeni economici da risorse insufficienti e spaventose diseguaglianze. Pochi dati sintetizzano il fenomeno: il reddito medio dei paesi ricchi è di 47.000 $ pro capite, quello del terzo mondo è di 6.000 $ e la media mondiale è di 11.000 $; si evidenzia così una chiara mancanza sia di risorse che di equità distributiva. Vediamole separatamente, analizzando per prima l’equità distributiva, perché è l’aspetto su cui maggiormente si concentra l’attenzione, alimentando il facile sogno utopico della rivoluzione che senza cambiare il meccanismo produttivo, uccide il tiranno e permette il benessere generale. 

Nella realtà purtroppo non è così; anche in Italia nell’Ottocento una diversa equità distributiva avrebbe lasciato tutti poveri, il benessere del dopo guerra è stato possibile grazie all’aumento di 10 volte (1.000%) delle risorse. Discorso analogo riguarda la popolazione mondiale; la diseguaglianza distributiva, con rapporto da uno a otto fra ricchi e poveri è forte ma non patologica. In Italia a fine ‘900, momento in cui sono stati raggiunti i più elevati risultati di equità distributiva, il 10% più ricco della popolazione aveva un reddito pro capite di “solo” 10 volte i 10% più povero; oggi questo divario è decisamente aumentato.

La semplice riduzione delle diseguaglianze a livello mondiale, oltre a essere irrealizzabile, potrebbe non migliorare la situazione generale; il reddito di ciascun abitante della terra diventerebbe 11.100 $ anno che non raddoppia nemmeno l’attuale ricchezza media del terzo mondo, ma metterebbe tutta l’umanità in una situazione analoga di quella attuale di Argentina, Russia, Messico, Turchia; cioè livelli incompatibili con l’ipotesi di un regime democratico. Potrebbe quindi rappresentare un ritorno alla violenza e alla guerra per bande; la dignità umana e la riduzione delle diseguaglianze richiede invece un nuovo strumento di gestione democratica che permetta la crescita globale delle risorse. 

Le contradizioni della sinistra: abbiamo visto che fino all’inizio del ‘900 era corretto utilizzare la lotta sindacale come lotta di classe perché vi era un’identità fra padrone/borghese da una parte e lavoratore/proletario dall’altra; la sinistra e i sindacati rappresentavano la forza che rivendicavano i diritti del proletariato e spingevano l’evoluzione virtuosa verso la democrazia. Dopo la guerra però l’acquisita parità di diritti ha rovesciato i termini di riferimento: il lavoratore è diventato un produttore le cui necessità sono contrarie a quelle prioritarie della collettività/utente e l’efficienza produttiva è diventata l’elemento portante dello sviluppo occupazionale e del benessere collettivo.

Inoltre le condizioni lavorative, derivano fondamentalmente dal livello dei diritti e sono quindi le più facile da regolamentare; oggi applicando un regolare contratto di lavoro, le condizioni sono migliorabili ma accettabili; i contratti di lavoro, discussi dai sindacati utilizzando lo scontro sindacale, seguono  una prassi consolidata dovuta a vincoli ideologici/organizzativi, che però ha perso parte del suo significato e non è stata superata a causa della mancanza di una struttura pubblica in grado di elaborare le strategie economiche del Paese.

Infatti il livello dei salari sono un elemento strategico per lo sviluppo economico e riguardano l’intera collettività per cui ha poco senso che una categoria, grazie a una sua maggiore forza contrattuale, goda di condizione migliore delle altre; sarebbe quindi corretto che un’Autorità Pubblica, avendo gli strumenti e la conoscenza necessari, fissi su base democratica un contratto di lavoro valido per tutti, che la concorrenza avrà la facoltà di aumentare. Discorso analogo del salario minimo

Comunque il sistema attuale anche se ancora formalmente alimentato dalla lotta sindacale è accettabile; il vero problema è invece l’attuale incapacità del meccanismo economico di rendere universali le situazioni regolari impedendo che diventino isole felici circondate da una maggioranza di lavoratori senza diritti né libertà. Il problema però non riguarda più la regolamentazione (diritti) ma il meccanismo produttivo che non assolve al suo ruolo per la nostra incapacità di capire come funziona e quali interventi possano garantire un’evoluzione virtuosa.

Vediamo di quantificare i valori in gioco; rispettando la legge, i possibili vantaggi economici a livello aziendale sono quantitativamente limitati perché difficilmente si possono, pur con enormi difficoltà, raddoppiare i redditi dei livelli bassi della piramide aziendale, che quindi al limite possono passare da 1 a 2. Nella seconda metà del ‘900, invece l’aumento di risorse prodotto dall’ottimizzazione produttiva è stato di un altro ordine di grandezza, valutabile in 10 volte, tale quindi da far passare il reddito da 1 a 10. Questa forte crescita ha permesso di raggiungere gli elevati livelli economici e sociali mai prima raggiunti, mentre le battaglie aziendali possono incidere solo per il 10% sui risultati raggiunti. 

L’ulteriore aumento delle risorse economiche, di nuovo possibile grazie alla rivoluzione elettronica, dovrebbe essere di altre 10 volte, portando l’aumento totale di risorse dovuto all’efficienza produttiva a ben 100 volte, riducendo ulteriormente il peso dello scontro aziendale capace ormai di rappresentare solo l’1% del risultato raggiunto e raggiungibile. La lotta sindacale ha perso di significato pratico a livello economico; resta valida invece la lotta per mantenere i diritti, ma si svolge a livello politico non aziendale, ed è necessaria per contrastare una posizione inaccettabile della destra che vuole ridurli. Però si tratta di una strategia di sola difesa che può frenare il degrado ma non ottenere vantaggi significativi.

Inoltre il modo di valutare il lavoro è errato anche a livello logico; infatti il lavoro non è un obbiettivo ma una necessità perché l’obbiettivo è massimizzare la conoscenza e il benessere collettivo minimizzando l’impegno lavorativo, come è avvenuto nella II metà del ‘900. Certamente il lavoro è determinante per ottenere questo risultato ma solo come strumento e non come fine; l’errato angolo di visuale falsifica quasi tutte le valutazioni e privilegia nella maggioranza dei casi, il lavoro passato e non quello futuro. L’errata posizione è molto radicata: deriva dall’errata interpretazione marxista ancora inconsciamente dominante, permette risposte facili e quasi automatiche, le uniche possibili in una realtà economica complessa ma tuttora priva dei necessari strumenti conoscitivi; infine difende interessi attuali e presenti (i posti di lavoro) contro quelli ben maggiori ma incerti e futuri di una collettività assente e impossibilitata a capire.

La vera sfida che attende la sinistra è comunque stimolare l’efficienza produttiva per permettere una diversa politica capace di modificare la situazione economico/sociale e garantire conoscenza e benessere diffuso in una società equa e governata democraticamente. Il raggiungimento dell’obbiettivo difficilmente potrà essere raggiunto fino a quando mancherà una struttura pubblica in grado di contribuire alla gestione produttiva in mancanza del mercato; non superare questo vincolo può però portare al crollo dell’intero sistema.

In attesa sarebbe comunque logico cercare di limitare le azioni che, in difesa del singolo lavoratore, peggiorano la situazione generale della collettività. Privilegiare il lavoro significa premiare la catena gerarchica/organizzativa del sindacato, a discapito di quella imprenditoriale, rendendo più difficile l’inserimento, il coordinamento, l’integrazione dei soggetti e l’ottimizzazione produttiva. In questi casi, alla collettività manca la difesa dal mercato e alla produzione quella dell’efficienza aziendale; si riducono così risorse, diritti e conoscenza.

Tale meccanismo perverso condiziona particolarmente i settori gestiti dalla mano pubblica perché non controllabili dal mercato e quindi dove la collettività/utente è più debole. Oltre allo spreco di risorse, pesa il danno sociale perché la mancanza di servizi penalizza principalmente le classi deboli. La collettività/utente non teorizza ma sconta sulla propria pelle i disagi per code, disguidi, ritardi, dovuti ai privilegi di pochi.

La crescita del ruolo della struttura pubblica nel meccanismo produttivo, dovuto all’evoluzione, ha reso così la prassi di sinistra sempre più contradittoria rispetto agli obbiettivi da raggiungere, come viene confermato dai risultati elettorali. Infatti se risulta minoritario chi ufficialmente difende la base della piramide sociale che costituisce la maggioranza, significa che è errato il meccanismo di delega e la prassi seguita.

La sinistra attualmente, priva di una strategia compatibile con la nuova realtà, risulta ovunque perdente e contradditoria perché votano a sinistra i quartieri agiati e a destra le periferie. La distinzione destra/sinistra a livello economico è caduta, se non rovesciata, e la residua tenuta della sinistra deriva dalla paura della perdita dei diritti che caratterizza il prevalere delle destre.

Equivoco conoscitivo. L’equivoco interpretativo della sinistra è solo la punta dell’iceberg di una generale errata chiave interpretativa della realtà che condiziona e limita la spinta evolutiva. Visto il generale rifiuto a ripensare l’attuale impianto istituzionale e la nostra prevalente lettura falsata della realtà può essere utile esaminare le ragioni storiche che hanno prodotto questo assurdo condizionamento. Tutto nasce nell’Ottocento dove una piccola minoranza, la borghesia, arrivata al potere in nome di égalité, fraternité, liberté, mantiene però la stragrande maggioranza della popolazione, il proletariato senza diritti, a livello di pura sussistenza.

Marx ha correttamente teorizzato la lotta di classe come strumento per superare questa inaccettabile situazione, ma elaborando la teoria del “plus valore” ha portato lo scontro a livello aziendale, padrone-lavoratore, quindi tecnico e non politico, borghesia-proletariato. La lotta di classe è diventata così lotta sindacale ma non ha compromesso la prassi, perché esisteva allora un’identità del proletario-lavoratore da una parte e borghese-padrone dall’altra. Lo scontro si è però ridotto a un problema tecnico aziendale e ha perso la sua caratteristica di nucleo della complessa evoluzione politica che coinvolge l’intero ciclo economico/sociale, cioè diritti, efficienza produttiva e logica distributiva.

Questo divario fra complessità della realtà e semplicità della chiave interpretativa ha permesso di allargare la partecipazione collettiva perché tutti potevano erano coinvolti non occorrendo conoscenze specifici; tutti erano uguali e in grado di fornire risposte coerenti ai problemi sociale. Valutazione errata ma chiara e semplice; si è però ridotta la conoscenza ed è diventato impossibile identificare le cause della crisi e le possibili soluzioni.

L’esame si è limitato infatti al solo momento produttivo, cioè la metà del ciclo, quella più semplice con meno interdipendenze, dove le risposte sono automatiche, errate ma chiare e coerenti con la logica ipotizzata. Il riferimento al solo momento produttivo porta infatti come automatica conseguenza che il maggior benessere del lavoratore si ottiene facendo crescere diritti, occupazione e remunerazione; non servono ulteriori spiegazioni e diventa inutile analizzare la parte restante, che coinvolge la logica economica dialettica e complessa.

Questa spiegazione semplificata oltre ad essere facile e comprensibile, sembrava confermata dai risultati pratici. Sono cresciuti infatti diritti e benessere diffuso raggiungendo risultati insperati, si sono consolidane le organizzazioni politiche e i sindacati ad esse collegati; tutto sembrava confermare che fosse la strada corretta e l’unica possibile. È nato così il pensiero unico dominante in cui i problemi economico/sociali si risolvono principalmente a livello aziendale difendendo occupazione e salari; pensiero semplice, comprensibile da tutti, non richiede incerte interpretazioni e garantisce il potere a una significativa fetta della popolazione, mantenendo lo stato quo. 

Inoltre la forte crescita economica prodotta dal cambiamento politico e dall’evoluzione tecnologica, facendo crescere produzione e benessere collettivo, ha nascosto lo spreco di risorse e di forza lavoro prodotti dall’errata interpretazione economica ed ha impedito di evidenziare la disfunzione. Sarebbe stato infatti necessario uno strumento per valutare il reale livello di sviluppo possibile; compito impossibile senza una struttura pubblica delegata a misurare e valutare strategie, logica produttiva globale e risultati raggiunti e raggiungibili. Si è così continuato a focalizzare il rapporto aziendale padrone/lavoratore che, come abbiamo visto, può determinare solo il 10% del benessere collettivo; percentuale destinata a ridursi all’1%, utilizzando le nuove possibilità di sviluppo.

I nodi sono venuti al pettine quando lo spreco di risorse e le politiche contradittorie hanno rotto il circolo virtuoso, iniziando a riduce sviluppo, diritti, libertà ed equità; è nata la necessità del cambiamento, ma richiedeva una discontinuità radicale per far saltare privilegi, conoscenze acquisite, certezze consolidate, soprattutto quella folle convinzione, tanto consolatoria, che la valutazione dominante è corretta e non serve quindi uno sforzo conoscitivo ma basta aspettare l’automatico ritorno dell’equilibrio. Ha prevalso così la voglia di non vedere, come già era successo negli anni ’20 e ’30 del ‘900; la drammatica esperienza di allora dovrebbe imporci un radicale cambiamento comportamentale.

Sintesi storica. Possiamo fare una rapida carrellata storica per confermare quanto affermato.

Dominio borghese nell’Ottocento: L’evoluzione tecnologica ha incominciato a manifestarsi con crescente velocità nell’Ottocento e avrebbe potuto permettere un significativo aumento di produzione e risorse, ma questo era contrario agli interessi della borghesia al potere. Ogni aumento di produttività non quindi ha fatto aumentare produzione e benessere collettivo ma solo la disoccupazione con una percentuale crescente del proletariato che veniva espulsa da ciclo produttivo

La borghesia a fine secolo ha vissuto il suo momento di massimo splendore della belle époque, , mentre il proletariato, privo di diritti ha subito la peggiore miseria, costretto per un 50% ad emigrare. Per aumentare significativamente la produzione sarebbe stato infatti necessario aumentare la domanda globale ottenibile solo con una crescita dei salari, ledendo i privilegi borghesi.

Keynes nel ’28 aveva previsto un possibile aumento della produzione di 4 volte (400%) e invece solo l’anno successivo con la crisi del ’29, i salari si sono ridotti (in Italia del 10%), evidenziando che una società industriale basata sull’economia di scala, non poteva tecnicamente reggere con il proletariato, la parte predominante della popolazione (più del 95%), che non aveva potere d’acquisto. Veniva infatti a mancare più del 70% della domanda globale, rompendo il fragile equilibrio economico; la collettività ha pagato la caduta dei privilegi borghesi con le dittature e la guerra.

Binomio capitalismo/democrazia della seconda metà del ‘900. Il suffragio universale diventato finalmente reale dopo la guerra ha spinto la struttura pubblica a realizzare l’uguaglianza dei diritti, mentre l’efficienza del sistema capitalistico, messo finalmente al servizio della collettività ha permesso di rendere reale i diritti raggiunti trasformandoli in potere d’acquisto. Nel breve periodo che va dagli anni ’40 (fine della guerra) agli anni ’80, i famosi “trenta gloriosi”, la struttura pubblica ed economica (capitalismo) si sono integrati, permettendo di sfruttare in pieno la potenzialità produttiva del sistema e di raggiungere risultati che in precedenza sembravano impossibili.

Riporto alcuni dati, più dettagliatamente esposti in Scacco alla crisi (De Ferrari – Genova-2010). In termini quantitativi la produzione delle democrazie avanzate da inizio a fine ‘900, ma principalmente nel periodo indicato, è aumentata di 10 volte (1.000%). A livello dell’equità distributiva i risultati sono stati ancora migliori; sinteticamente (elaborazione Banca d’Italia 2004) in Italia il 50% della popolazione fruiva del 50% delle risorse, vi era poi un 15% ricco e un 35% povero, però il reddito medio del 10% più ricco era “solo” 10 volte quello del 10% più povero.

Facendo riferimento ai soggetti più ricchi risultava che il 2,2% della popolazione fruiva del 10% dei redditi totali, che diventava 26,7% se si considerava il 10% più ricco della popolazione; facile dedurre che il reddito di quel 5% di soggetti privilegiati, che costituiva la borghesia, si era ridotto dal 90% a meno del 20% del totale, confermando già a livello numerico la nascita della società post borghese.

I dati reali, al di là della fredda logica numerica, erano ancora migliori perché, secondo l’uso consolidato, facciamo sempre riferimento solo a redditi monetari, cioè la disponibilità economica dei singoli, ma trascuriamo il reddito non monetario prodotto dai vari servizi gratuiti di cui si disponeva e che non esistevano prima; basta pensare a sanità, istruzioni (allora eccellenti) ed altri benefit che l’equilibrio economico/sociale metteva liberamente a disposizione.

Vi è poi il capitolo poco misurabile, ma ancora più importante relativo al livello di diritti e libertà raggiunti. Anche in questo settore possiamo parlare di un aumento di 10 volte, che sottolinea il risultato incredibile; mai nella storia si era raggiunto un tale livello di benessere diffuso, libertà, diritti ed equità distributiva. Se a un operaio/proletario di inizio ‘900 avessero illustrato le possibili condizioni di cui avrebbe fruito un analogo operaio di fine secolo lo avrebbe valutato il solito sogno utopico. Il risultato è stato possibile grazie alla mano pubblica capace di regolamentare e controllare la travolgente capacità produttiva del capitalismo e di integrarla con la logica distributiva ugualitaria.

Era l’ora delle democrazie vincenti: l’imprenditore non più considerato il “padrone” da combattere, ma il soggetto necessario per difendere occupazione e crescita economica. Situazione non solo italiana ma comune a tutte le democrazie mondiali, che potevano nascere e consolidarsi, con i grandi leader, la sinistra e i sindacati come forza propulsiva e la simbiosi capitalismo/democrazia.

Nella II metà del ‘900 esisteva solo il binomio capitalismo/democrazia e tutti i paesi democratici erano capitalistici e il capitalismo avanzato, prosperava solo nei paesi democratici. La democrazia si imponeva progressivamente in Europa e in tutti i Paesi avanzati, mentre le soluzioni alternative fallivano. La spinta virtuosa si è interrotta però alla fine del secolo scorso perché in quel periodo di costruzione democratica si era realizzata quasi interamente l’evoluzione economica compatibile con il mantenimento del meccanismo istituzionale borghese.

Situazione analoga si era creata nel ‘700 con l’affermarsi della borghesia e del meccanismo capitalistico; per un lungo periodo il capitalismo si era sviluppato all’interno delle istituzioni feudali, ma la sua crescita lo ha reso sempre più incompatibile con la regolamentazione precedente e ha imposto, attraverso la rivoluzione francese, un radicale cambiamento, realizzato con la tripartizione del potere consone al potere borghese.

Anche a fine ‘900 lo sviluppo dell’ultimo mezzo secolo ha rotto il precario equilibrio realizzato e si è rilevata l’incompatibilità della logica istituzionale borghese con le necessità della società che stava subentrando. L’azione dei detentori del potere politico infatti, non ha più creato benessere collettivo ma ha difeso solo i propri privilegi, sempre meno compatibili con il salto tecnologico della rivoluzione elettronica. I fruitori di tali privilegi non hanno voluto rinunciarci nonostante che i costi per la collettività, loro compresi, fossero diventati superiori ai vantaggi ottenuti. L’impegno attuale è modificare la situazione per abbattere questi inaccettabili privilegi.

Precisazioni. Abbiamo visto come l’ottimizzazione produttiva che permette la crescita delle conoscenze e delle risorse è il nucleo del problema da affrontare ed anzi il livello di capacità produttiva ha sempre identificato l’evoluzione della civiltà umana. Per evitare equivoci vorrei però precisare a cosa ci si riferisce quando parliamo di aumento di capacità produttiva.

Non ci riferiamo infatti a telefonini, frigoriferi ed altro, cioè tutti quei prodotti che offre il capitalismo controllato dal mercato e sono, almeno per i paesi avanzati, già troppo abbondanti, tanto da alimentare il legittimo rifiuto del consumismo. L’insieme di questi beni dovrebbe però rappresentare solo un 30% dell’intera produzione necessaria mentre costituiscono la totalità perché il residuo 70% non riesce neppure a figurare, perché mancano degli strumenti necessari a manifestarsi ed a essere prodotto, creando lo stabile squilibrio esistente.

Il 70% dimenticato infatti, comprende infrastrutture, equilibrio ecologico, riscaldamento globale, consumi energetici, vivibilità delle città e molto altro; è la parte produttiva predominante e strategica da cui ormai tutto dipende, anche la sopravvivenza della nostra società. È però la produzione non gestibile dal mercato e quindi attualmente mancano gli strumenti necessari per recepirla e produrla e realizzare l’ottimizzazione produttiva. Viene così a mancare sia una parte determinante della produzione che blocca la crescita del sistema paese, sia soprattutto la possibilità di creare una conoscenza collettiva del meccanismo che coinvolge la globalità economica e diventa il principale ostacolo alla crescita democratica.

Solo superando questo condizionamento potremo ritrovare nella collettività quella intelligenza assopita e non utilizzata e raggiungere anche il fondamentale obbiettivo di rendere le democrazie nuovamente vincenti e in grado di travolgere le dittature. L’ottimizzazione produttiva infatti necessita/produce intelligenza, libertà e casualità, caratteristiche tutte incompatibili con la dittatura basata su imposizione e dominio. Per la prima volta potremo creare una società, non più condizionata dallo sfruttamento, ma governata dal diritto. Forse sogno utopico, ma possibile; comunque non esistono alternative e tutto il resto alimenta solo il bla.bla.bla. dei politici, denunciato da Greta

CAP. IV – LA ROTTURA DEL MECCANISMO ISTITUZIONALE

Situazione. Il modello democratico realizzato nella seconda metà del ‘900 da alcuni paesi avanzati ha portato la collettività al più alto livello di diritti, benessere diffuso ed equità distributiva. Il risultato è derivato dall’abbinamento della struttura pubblica con il capitalismo privato. La prima eletta con suffragio universale, realizzava l’uguaglianza di diritti, stabiliva le regole della logica produttiva e sorvegliava che venissero rispettate; la seconda, l’economia capitalista, grazie al controllo del mercato garantiva il potere d’acquisto attraverso l’ottimizzazione produttiva, facendo crescere conoscenze e risorse. Venivano così garantiti i diritti e il potere d’acquisto che li rendeva reali; la collettività era difesa dalle elezioni per i diritti e dal mercato per il potere d’acquisto.

Era però solo la prima fase di un più ampio processo economico/sociale necessario a completare la realizzazione della democrazia. Infatti il proletariato, precedentemente privo di diritti non possedeva nulla (salvo la prole) e quindi aveva bisogno di tutti i beni del vivere civile quali casa, arredo, elettrodomestici, automobili, ecc. Erano i beni più facili da produrre perché erano tutti beni facilmente gestibili dal mercato. Soddisfatte queste necessità, e in parte a causa del loro soddisfacimento, si è reso necessario soddisfare necessità più complesse e non gestibili dal mercato

Il salto tecnologico e l’evoluzione economico/sociale avevano infatti progressivamente cambiato troppe cose e la nuova situazione era sempre meno consona all’attuale meccanismo istituzionale che richiedeva una democrazia, che andasse oltre a quella borghese, presupposto necessario per affacciarci alla società post borgese. Abbiamo già visto che la borghesia per il superamento del feudalesimo aveva incominciato a sviluppare il capitalismo utilizzando i limitati margini di libertà esistenti. Il progressivo sviluppo si è però dimostrato sempre più incompatibile con il regime esistente e la spallata delle rivoluzione francese ha imposto il nuovo impianto istituzionale basato sulla tripartizione dei poteri per garantire alla borghesia nuovi diritti e la libertà economico/operativa.

Da allora il sistema si è sviluppato per un secolo al servizio della sola borghesia fino a quando le sue intrinseche contraddizioni tecniche e sociali, non hanno imposto una nuova radicale evoluzioni. Il vincolo tecnico derivava dall’impossibilità per un’economia basata sulle economie di scala e la produzione di massa, di poter raggiungere l’equilibrio se il proletariato, più del 95% della popolazione, era senza potere d’acquisto; inevitabili le ricorrenti crisi economiche fino a quella del ’29, superata solo dallo scoppio della guerra. La contraddizione sociale scaturiva dalla necessità di personale più evoluto sempre meno disposto a subire la disoccupazione e la crescente miseria dovuta alla totale mancanza di diritti. 

È interessante vedere, per la prima metà del ‘900, l’ordine di grandezza delle cifre in gioco perché e analogo a quello odierno. A livello tecnico mancava circa un 70% della domanda globale, a livello sociale si penalizzava il benessere collettivo, Keynes nel ’28 aveva previsto un possibile aumento del Pil del 400% e invece la crisi del ’29 ha ridotto tutti i salari (in Italia del 10%). I crescenti vincoli tecnici e la miseria sono stati il detonatore che ha fatto esplodere la lotta di classe, aprendo nuovi spazi di libertà, diventati vincenti però solo alla fine della guerra.

È così iniziata la seconda metà del ‘900 che ha permesso, limitatamente ai paesi avanzati, il primo timido tentativo di gestione democratica, garantendo risultati in termini di diritti, libertà e benessere collettivo mai sperati. Questa fase ha utilizzato le libertà raggiunte e i margini di libertà di un regime istituzionale, pensato per garantire i privilegi della borghesia ed ora impiegato al servizio della collettività. Il travolgente sviluppo economico/sociale di tale periodo ha rapidamente saturato gli esistenti margini di libertà ed ha fatto esplodere le contradizioni, imponendo di adeguare il sistema istituzionale alla nuova realtà; condizione necessaria per proseguire l’evoluzione virtuosa. Vediamo i vincoli.

Possibilità e limiti del mercato. Prima di continuare sarà bene però valutare la funzione del mercato perché per anni è stata la linea di divisione fra il socialismo (sinistra) che lo vedeva come l’origine di tutti i mali e il liberismo (destra) per il quale era invece un dio onnisciente capace di garantire benessere a tutti e risolvere qualsiasi problema. Entrambi avevano torto perché il mercato è solo un eccellente mezzo tecnico insostituibile per determinate funzioni ma incapace a svolgerne altre. Vediamo quindi funzioni e limiti; le principali funzioni, dove finora risulta insostituibile, sono:

Primo. Coordinamento dell’insieme produttivo oggi globale: la richiesta di un solo bene in più in Italia costringe la struttura produttiva mondiale a modificarsi per adeguarsi, in tempo reale, alle nuove necessità. Il cambiamento prodotto dalla maggiore domanda del singolo bene è infinitesimale ma esiste, il mercato ha la funzione di adeguare le singole produzioni alle necessità globali. Forse in un domani, anche se improbabile, l’elettronica potrà svolgere questa funzione, ma oggi è l’unico strumento possibile per evitare l’inefficienza produttiva per eccedenze o mancanze.

Secondo. Dare alla collettività lo strumento per esprimersi, far conoscere le proprie necessità e imporle alla struttura produttiva.

Terzo. Risposta, sempre in tempo reale, all’imprenditore sulla validità della scelta fatta, eliminando coloro che non hanno realizzato l’ottimizzazione produttiva; questa funzione permette all’imprenditore un controllo continuo della sua attività, fornendogli la conoscenza per aggiustare organizzazione e obbiettivi al fine di realizzare l’ottimizzazione produttiva, nucleo del sistema economico, che genera risorse economiche e conoscenza.

Il mercato invece, essendo solo uno strumento propedeutico, non può gestire l’attività economica né le sue linee strategiche; questo è esclusivamente compito dell’imprenditore e della struttura aziendale che lo supporta. L’imprenditore utilizza il mercato per controllare la validità del suo operato e per rilevare serie storiche che possono aiutare a prevedere la situazione futura; questo uso previsionale è utile però se l’evoluzione è lenta, se è invece veloce, come oggi, è facilmente falsante, ed impone all’imprenditore un più alto livello di fantasia creativa.

l’imprenditore è infatti il solo responsabile dell’organizzazione aziendale e delle scelte strategiche e la sua possibilità di svolgere questa funzione non gli deriva dalla sua intelligenza, utile ma non sufficiente, ma dall’inserimento all’interno della propria azienda che grazie a una catena gerarchica/conoscitiva è in grado di fornire la conoscenza e il potere necessari a tutti i partecipanti dell’azienda. L’eccellenza del risultato finale deriva dall’inserendo di tutti i soggetti aziendali di una struttura piramidale divisa per livello, all’interno della quale ciascuno dispone della conoscenza e del potere propri del suo specifico livello e trasmette ai livelli superiori quanto di loro competenza. Solo la capacità di interagire e integrarsi di tutti i membri dell’organizzazione, permette di mettere a fattor comune le varie intelligenze e conoscenze, per raggiungere la complessa conoscenza possibile e necessaria per l’eccellenza produttiva.

Questa struttura organizzativa fornisce infatti il contenuto conoscitivo che caratterizza l’imprenditore e la struttura aziendale che lo sostiene, ed è indispensabile non solo per realizzare l’ottimizzazione produttiva, ma anche semplicemente per produrre. Solo la produzione economica può infatti garantire la specifica conoscenza del “fare”, senza del quale la produzione non esiste. Le aziende però sono inserite in un meccanismo di specializzazione produttiva e quindi la loro specifica conoscenza riguarda solo il settore di attività svolta, indipendentemente se parliamo di aziende privati o “pubbliche” del capitalismo di Stato.

Tutti quindi conoscono necessità e possibilità dei singoli settori produttivi ma nessuno gestisce, e quindi conosce, quelle che condizionano lo sviluppo economico dell’intero sistema Paese. Il discorso come vedremo vale anche per il Governo perché pur rappresentando la totalità del Paese, non dispone in termini di tempestività, collegamento base/vertice, inserimento continuo nel territorio, degli strumenti necessari per svolgere questa funzione.

All’origine la funzione operativa non era necessaria e non è stata prevista; si ipotizzava infatti solo la gestione della forza cioè ordine pubblico e difesa (o guerra) e in questi settori fin dall’inizio si è costruito una ben diversa organizzazione che per essere operativa dispone inevitabilmente della tempestività e dell’inserimento territoriale tipico dell’organizzazione aziendale.

Ne risulta quindi un’impressionante contraddizione: una parte principale e strategica della produzione, non può essere gestita dal capitalismo pubblico/privato, e non esistono finora gli strumenti necessari per produrre la conoscenza e il potere di cui necessita. Non è facile stabilire il peso percentuale di questa parte fuori controllo; nei capitoli precedenti l’abbiamo valutata intorno al 70% della produzione globale. La percentuale potrebbe sembrare esagerata ma non lo è pensando che il solo prelievo fiscale raggiunge il 50% del Pil; ad esso dobbiamo aggiungere tutti i servizi gestiti dalla mano pubblica perché operati in regime di monopolio naturale e tutto ciò che si doveva fare e non è stato fatto, cioè il principale nucleo della disfunzione.

Una diversa logica valutativa potrebbe anche dare una percentuale più elevata, ma a questo livello il problema non è stabilire se è giusto il 60% o l’80%, infatti ci basta sottolineare che è un valore molto significativo e tale da evidenziare l’importanza del fenomeno. Inoltre ancora più determinante del valore percentuale e la funzione strategica di questa parte di produzione priva degli elementi necessari alla sua produzione; parliamo infatti di infrastrutture, istruzione, sanità, equilibrio urbano e tutti i problemi internazionali. 

Siamo cioè in grado gestire e ottimizzare, grazie al mercato, le singole attività cioè il particolare e ci sfugge l’insieme; curiamo così (spesso male) le varie parti di produzione, ma non riusiamo ad affrontare problemi generali quali guerra in Ucraina, migranti, riscaldamento globale, disastro ecologico che, non risolti e abbandonati a se stessi, preparano progressivamente la distruzione della nostra società.

Aspetti sociale/produttivi del mercato. Il mercato, nucleo del capitalismo e della borghesia, condiziona il sistema economico sia sul lato dell’offerta (produzione) che della domanda (consumi). Per il primo punto, offerta, è l’unico sistema finora conosciuto che permette un controllo reale sui risultati dell’attività del produttore, permettendo l’ottimizzazione produttiva e quindi la crescita di risorse e conoscenza. Forse l’elettronica in futuro potrà sostituirsi al mercato ma attualmente non esiste un sistema ugualmente affidabile.

Per il lato della domanda, consumi, il mercato distribuisce ai singoli membri della collettività quanto prodotto in funzione del loro potere d’acquisto cioè del reddito di cui dispongono. Appartiene alla logica borghese, classe privilegiata, premiare i migliori, abbandonare gli esclusi che non contano e rimangono senza diritti. La lunga strada verso la democrazia ha cercato un punto d’equilibrio più socialmente equilibrato, indirizzando e gestendo le logiche del mercato.

Il primo passo è stato sottrarre al mercato il costo della mano d’opera, prevedendo contratti di lavoro che imponevano costi e modalità d’impiego; questo settore, fortemente condizionato dal livello dei diritti, com’era logico, ha dato i migliori risultati, da salvarsi oggi nel sistema generale. Si è in seguito correttamente valutato che la disponibilità di sanità, istruzione e altri servizi erano diritti irrinunciabili che dovevano essere sottratti alla logica del mercato per garantirli a tutti indipendentemente dalla capacità economica del singolo. Per questo settore non basta però, come è stato fatto, l’allargamento dei diritti ma è necessaria una struttura produttiva in grado di renderli reali; i condizionamenti economico/organizzativi hanno infatti reso difficile in pratica raggiungere l’obbiettivo.

Ai motivi sociali si sono aggiunti nel tempo altri vincoli tecnici che hanno impedito l’utilizzo del mercato; quasi tutta l’attività relativa alla gestione del territorio ha un carattere prevalentemente monopolistico che impedisce al mercato di operare; è oggi uno dei principali settori e comprende infrastrutture, programmazione urbanistica, servizi urbani, trasporti, vivibilità e molto altro.

Il sistema mondiale più si espande, più complica il meccanismo produttivo e più il mercato non è in grado di dare una corretta risposta a causa dell’ampiezza del problema e dei vincoli temporali; diventa così impossibile l’ottimizzazione automatica, anzi quasi sempre il mercato premia le soluzioni a breve, con piccoli vantaggi al presente, ma condanna il futuro con danni pesanti ed irreversibili.  Parliamo di equilibri geo politici (la guerra in Crimea), di riscaldamento globale, di migranti e tanti altri elementi ben noti, che sono sufficienti a dare la dimensione del problema. 

Il risultato è che il 70% della produzione globale non è gestibile dal mercato e mancano gli strumenti alternativi per gestirlo; cioè un 70% di domanda globale ha scarsi strumenti per esprimersi e non può essere soddisfatta. Si crea così uno squilibrio strutturale domanda/offerta con la domanda che non può saturare l’offerta. Parallelamente l’inadeguata produzione pubblica (infrastrutture, scuole ed altro) crea i colli di bottiglia che impediscono la crescita produttiva.

Il benessere collettivo avrebbe dovuto crescere del 1.000% e invece i redditi reali si sono ridotti a causa dalla insufficiente domanda e delle strozzature produttive, alimentano un’eterna crisi, che l’economia classica fa fatica a spiegare. È infatti portatrice di caratteristiche opposte, cioè inflazione (surplus di domanda) e recessione (mancanza di domanda), e penalizza le condizioni economiche generali. Si è così ricreata una situazione con valori analoghi, per vincoli tecnici (domanda globale) e miseria, di quella dell’inizio del ‘900 che ha fatto esplodere il sistema.

Necessità nuova logica. Quando si è constatato l’esistenza del fenomeno e la sua importanza si è correttamente capito che bisognava garantire anche in questo settore l’interesse collettivo e quindi utilizzare un controllo pubblico in sostituzione di quello del mercato; con un’ingenuità inaccettabile e forse per motivi non dichiarabili, si è pensato che per raggiunger l’obbiettivo era sufficiente delegare la gestione alla mano pubblica.

Nessuno dei politici e della società civile si è chiesto se la struttura pubblica aveva gli strumenti necessari a raggiunge l’obiettivo; la convinzione, forse inconscia ma diffusa, si basava sul presupposto che il capitalista insegue il proprio profitto quindi un interesse legittimo ma privato, mentre la struttura pubblica è naturalmente delegata a difendere l’interesse della collettività e del suo benessere. L’affermazione è corretta se parliamo della logica astratta delle due organizzazioni ma il comportamento degli uomini coinvolti è analogo, perché come è normale, tutti, politici, funzionari, operatori privati, difendono il proprio interesse.

Possiamo anzi prendere atto che, non per bontà ma per vincoli organizzativi, il comportamento del privato è spesso “oggettivamente” più virtuoso di quello del soggetto pubblico; infatti il privato per inseguire l’interesse privato del profitto, realizza l’ottimizzazione produttiva, cioè interesse pubblico che fa crescere risorse e conoscenza. Politici e funzionari pubblici invece, pur dichiarando che inseguono l’interesse collettivo, privi di un controllo reale sui risultati della loro gestione economica, subiscono meccanismi perversi decisionali, che impongono lo spreco di risorse per garantire a sé e al territorio, risorse, potere e privilegi.

Senza affrontare questo problema, si è preferito la semplificazione manichea che il padrone “ruba” il profitto mentre politici e funzionari difendevano la collettività. Con le solite eccezioni che confermano la regola, l’affermazione è falsa perché il comportamento virtuoso del soggetto pubblico non è automatico, viene solo presupposto ma corrisponde al sogno utopico del governante buono che legittima tutte le dittature.

Il problema quindi non è se l’interesse pubblico è difeso meglio dalla produzione pubblica o da quella privata, ma quali strumenti sono necessari per imporre al singolo produttore coinvolto (imprenditore, manager, politico, funzionario ed altri), di servire le necessità prioritarie della collettività/utente e non le proprie; cioè quale meccanismo coercitivo può sostituire il mercato. La collettività deve infatti poter imporre le proprie necessità, al fine di rendere i propri diritti reali e non solo formali; in mancanza avviene quello che è successo con la proprietà pubblica dei mezzi di produzione che era un principio nobilissimo ma ha permesso a un ristretto gruppo di operare senza controllo in totale arbitrio.

Punti non risolti.  Superata quindi la solita soluzione manichea che si limita a sostituire uomini “buoni”, politici e funzionari, agli uomini “cattivi”, imprenditori dobbiamo seriamente cercare una possibile soluzione al problema. Vediamo che in alcuni di questi settori la collettività può esprimere le proprie necessità ma non ha la possibilità di scegliere e valutare soluzioni alternative; si limita quindi ad accettare scelte fatte da altri che non può valutare. Esempio tipico è l’utilizzo dell’autostrada, acquistando il biglietto si fa la scelta di usarla, ma l’alternativa è praticamente inesistente manca infatti la possibilità di valutare sia una scelta alternativa (metropolitana) che modalità alternative di realizzazione.

In altri settori invece la collettiva non dispone neppure della possibilità di esprimere le proprie necessità né tantomeno di controllare l’operato del produttore pubblico. Esempio tipico il problema del riscaldamento globale; se voglio raffreddare la mia casa so dove acquistare un condizionatore e le sue caratteristiche, se mi interesso del pianeta posso solo scendere in piazza a manifestare istanze confuse e spesso contradditorie fra di loro che, come il mi piace, sono simbolo dell’illusione e dell’impotenza.  In entrambi i casi comunque la collettività deve necessariamente affidarsi al governante “illuminato” che decide per lei, uscendo così dalla logica democratica con tutte le conseguenze inevitabili. 

Gli obbiettivi da raggiungere sono quindi due fra loro interconnessi: il primo è quale strumento dare alla collettività per permetterle in ogni caso di esprimere le proprie necessità; il secondo come fornirle il potere per imporle al produttore (pubblico o privato non cambia). È evidente che le elezioni non possono svolgere questo ruolo perché diventano una delega periodica in bianco, dato il passaggio diretto base/vertice, senza livelli intermedi; l’attività economica richiede invece un meccanismo continuo esercitato attraverso una piramide organizzativa gerarchico/conoscitiva.

Anche il Governo non ha gli strumenti per recepire in tempo reale le necessità della collettività, non può conoscerle e quindi deve ipotizzarle autonomamente, fissando gli obbiettivi e controllando i risultati ottenuti; svolge così contemporaneamente la funzione di controllato e controllore. Queste due funzioni economiche di espressione delle necessità e di controllo dei risultati non sono state pensate, perché nella visione iniziale l’economia era compito della borghesia e non doveva essere affidata alla mano pubblica per non ledere i suoi privilegi difendendo il proletariato.

Abbiamo visto che all’origine il compito del Governo si limitava infatti principalmente a gestire il monopolio della “forza” cioè guerra ed ordine pubblico, più qualche infrastruttura quali strade, porti e ferrovie, la cui realizzazione veniva normalmente appaltata ai privati. Coerentemente con questa necessità si è organizzato un complesso impianto di carabinieri, polizia ed esercito che dispongono di strutture sparse sul territorio con un meccanismo continuo di collegamento base/vertice non diretto ma organizzato per livelli, come quello dell’organizzazione aziendale.

Solo così in caso di necessità per aggressione, furto o altro, contattando l’operativo di zona, si può sperare di avere un pronto intervento di contrasto e si possono controllare i risultati ottenuti. La protezione garantita dalla struttura pubblica sarebbe di fatto inesistente se fosse necessario, nei modi e tempi prestabiliti, contattare il vertice operativo della struttura locale o addirittura nazionale o il proprio rappresentante politico.

Il grande problema non risolto è quindi la mancanza di uno strumento per gestire la parte economica priva di mercato perché la collettività non dispone di un meccanismo per segnalare le proprie necessità e imporle ai produttori. Le elezioni usate a questo fine in questo campo dove non sai cosa vuoi e non puoi controllare l’operato del produttore, diventano una delega in bianco al “governante illuminato”, figura utopica inesistente che nasconde la logica dittatoriale.

Conseguenze economiche. Riassumendo la parte strategica e principale, quasi il 70% della produzione è affidata alla mano pubblica, la collettività manca però degli di controllo e per una parte sé distorta e limitata anche la possibilità di esprimere le proprie necessità. Difficilmente si poteva costruire uno strumento più idoneo a scatenare la “tempesta perfetta”; non ci si dovrebbe meravigliare della crisi economica quanto della residua capacità del sistema di ancora reggere. Solo l’immenso sviluppo tecnologico/produttivo raggiunto ha forse finora evitato il collasso.

L’elemento più dirompente è comunque a livello conoscitivo; infatti la mancanza di in meccanismo di controllo reale impedisce l’ottimizzazione produttiva e quindi non solo ostacola l’aumento di risorse ma anche di conoscenza. La mancanza di conoscenza a livello dei decisori pubblici inoltre moltiplica le disfunzioni e crea danni ben maggiori perché inquina tutto il dibattito politico/culturale. I decisori pubblici e l’indistinta collettività perdono così la capacità di valutare le scelte produttive e quindi inevitabilmente si adeguano sia alla posizione dei privati coinvolti che, pur in conflitto d’interesse, hanno una maggiore conoscenza specifica, sia agli slogan semplificati che condizionano i sondaggi e rappresentano l’espressione dell’opinione pubblica prevalente. La struttura pubblica che dovrebbe contrastare il potere dei privati e gli squilibri di una collettività non preparata, diventa invece in entrambi casi il moltiplicatore delle peggiori istanze.

Si forma una classe formata da politici e burocrati, la dittatura diffusa che gestisce la mano pubblica, ma non sa oggettivamente cosa conviene fare e comunque non ha gli strumenti né la convenienza a farlo, di conseguenza senza difficoltà promette tutto a una collettività incapace di valutare necessità, strumenti realizzativi e credibilità dei risultati raggiungibili e raggiunti. Le promesse non mantenute spingono a chiedere di più, seguendo chi lo promette non nel futuro, poco attendibile e valutabile, ma nel presente. Nasce una generale difesa del presente ottenuta penalizzando il futuro, con debito pubblico, squilibri urbanistici, idraulici ed ecologici. Le disfunzioni si accumulano e bruciano lo spazio del domani.

È questo immenso divario fra situazione reale e possibile, l’origine di tutti gli squilibri. In questo contesto anche la corruzione, pur grave a livello morale, salvo casi limiti, è economicamente poco significativa. Può riguardare il 2% – 3% del costo di produzione mentre ben più grave è il danno del non fare, o fare male, che facilmente può produrre un aumento generale di costo del 3 -400% forse anche al 1.000%. come spesso è avvenuto a Genova.

Caso Genova. Può forse aiutare, per meglio capire i perversi meccanismi decisionali, esaminare un caso specifico per rilevare come si sono mosse le forze in gioco e quale era la logica del loro comportamento. Genova è un caso limite, quasi emblematico della loro incidenza sullo sviluppo economico/sociale; città come Milano fortunatamente soffrono meno di questa disfunzione; non a caso la possibilità di scrivere queste cose mi deriva proprio dall’esperienza genovese. Sono comunque condizionamenti che coinvolgono, anche se in modo meno patologico, tutte le situazioni.

Non è ovviamente un discorso di logistica, mio campo specifico, ma è necessario fornire alcune informazioni per capire la logica comportamentale. Viviamo nel secolo della logistica e Genova ha una delle migliori posizioni geografiche per servire l’Europa, però fino a ieri aveva, rispetto ai porti concorrenti del Nord Europa, l’handicap della mancanza di spazi; oggi però è più che bilanciato dalla loro mancanza di fondali ed agibilità nautica. Genova quindi potrebbe diventare uno dei principali porti europei realizzando il centro logistico del Sud Europa, con forte sviluppo tecnologico e occupazionale. La soluzione tecnica per raggiungere l’obbiettivo implica però un salto tecnologico/dimensionale non drammatico ma non così facile da capire e immaginare.

La crisi logistica italiana, di cui Genova è una delle principali cause, danneggia il sistema Paese però premia sia politici e che imprenditori locali.

Infatti l’insufficiente potenzialità portuale crea un collo di bottiglia che impedisce di soddisfare una parte della domanda di trasporto (un 20% proviene da Suez e raggiunge il Nord Italia attraverso i porti del Nord Europa); crea quindi un onere aggiuntivo per il Nord Italia ma un’elevata rendita di posizione per gli operatori locali (aumento percentuale degli utili di 20 volte rispetto ai valori standard). Parallelamente il problema logistico non risolto, legittima nuovi investimenti che necessitano risorse statali, e garantiscono nuova occupazione e potere ai politici.

Politici e imprenditori hanno quindi lo stesso obbiettivo di attingere fondi statali senza però risolvere i problemi logistici, che persistendo continuano a garantire i relativi vantaggi; la soluzione è oggettivamente complessa e quindi è “legittimo” sbagliare. I principali problemi sono due: per i collegamenti con il Nord Italia, il superamento dell’Appennino, per il porto l’aumento degli spazi e delle acque portuali dovuto alla cresciuta dimensione nave. Entrambe i problemi sono stati affrontati, ma le soluzioni adottate sono le meno utili e più costose.

L’attraversamento dell’Appennino, implica la realizzazione di una galleria di notevole lunghezza dai 40 ai 50 km.- il terzo valico; si è previsto di abbinare treno veloce  passeggeri (indispensabile) con il traffico pesante (scarsamente utile), ottenendo quasi un raddoppio dei costi. La morfologia dietro a Genova è inoltre molto particolare: a Ovest è conformazione alpina (stabile) a Est  Appennino (instabile) divisi al centro da una stretta faglia (imprevedibile). Il terzo valico è in costruzione nella faglia centrale, il risultato è che i lavori vanno avanti ormai da 20 anni e non se ne vede la fine; si sono così forse triplicati tempi e costi dell’opera.

Il porto richiede maggiori spazi operativi e lo spostamento al largo della diga foranea per facilitare le manovra delle grandi navi; la soluzione scelta non prevede un significativo aumento di spazi portuali ma solo lo spostamento della nuova diga che viene prevista su fondali di 52 metri con forti problematicità che rendono problematica la sua realizzabilità tecniche e aumento di almeno 2 – 3 volte costi e tempi. Un progetto alternativo ha previsto di spostare la diga ma mantenerla su un fondale di 30 metri per limitare costi e sorprese tecniche; si sono ottenuti gli stessi vantaggi di navigabilità ed in aggiunta un aumento del 60% degli spazi portuali di Sampierdarena.

Integrato a questo progetto, esiste un’ipotesi di sviluppo portuale, denominato Bruco, elaborato del Politecnico di Torino e convalidato del Rina di Genova che, grazie a una soluzione innovativa, quadruplica la potenzialità portuale e risolve contemporaneamente i problemi di spazio e di attraverso dell’Appennino. Si autofinanzia, quindi non necessita di risorse pubbliche, è realizzabile in tempi brevi ed elimina i principali vincoli logistici del Nord Italia. Queste sue caratteristiche positive fanno però cadere le rendite dei politici e imprenditori coinvolti, quindi non viene discusso e neanche se ne parla.

I perversi meccanismi decisionali che originano questi comportamenti nascono dalla mancanza di una struttura operativa pubblica capace di affrontare, usando la conoscenza operativa del “fare”, il problema nel suo insieme; prevalgono di conseguenza le posizioni dei soggetti “competenti”, pur portatori di interessi opposti a quelli della collettività. Si tratta infatti di un comportamento obbligato e quasi automatico; ricordo un caro amico, uno dei migliori sindaci di Genova, che di fronte alle ipotesi dello sviluppo alternativo portuale del Bruco mi ha correttamente detto: “penso che hai ragione ma nel mio ruolo istituzionale non posso prendere posizione senza l’avvallo ufficiale di una struttura pubblica titolata al compito specifico”. Nel nostro impianto istituzionale non esistono purtroppo i meccanismi e la conoscenza per svolgere tale ruolo di sintesi.

Moltiplicatori di disfunzioni. Le disfunzioni però non si fermano qui perché in economia vengono ampliate da moltiplicatori che coinvolgono settori paralleli o dipendenti. Abbiamo visto che per l’evoluzione tecnologica/organizzativa degli ultimi 40 anni, circa un 70% della possibile/necessaria produzione viene esercitata senza un meccanismo di controllo reale sui risultati; di conseguenza il 70% del Pil ci affidiamo al “governante illuminato” che non sa quali sono le necessità della collettività, nessuno gli impone di soddisfarle e lui stesso decide cosa fare e controlla che venga fatto.

Mille controlli formali ma nessun controllo reale e come conseguenza l’inevitabile dittatura diffusa che fa e disfa a proprio piacimento previlegiando il presente a scapito del futuro. Il risultato è sotto agli occhi di tutti, l’abbiamo illustrato troppe volte diventa quasi inutile ripeterlo. Più utile è soffermarsi su ciò che non si vede e nasconde le principali disfunzioni.

La mancanza di un 70% della domanda globale, perché incapace di esprimersi, ricrea una situazione analoga a quella dell’Ottocento caratterizzato da un’analoga mancanza del 70% di domanda globale a causa del proletariato privo di potere d’acquisto. Allora il susseguirsi delle crisi e la disoccupazione dilagante alla fine ha fatto saltare il sistema. Anche oggi la disoccupazione dilaga però da noi è meno dirompente perché mitigata da coperture sociali e precedenti ricchezze accumulate; ben diversa è la situazione di chi non ha queste possibilità.

Terzo mondo. I problemi finora esaminati riguardano le democrazie avanzate, minoranza privilegiata che rappresenta però solo un 15% della popolazione mondiale, il vero dramma riguarda l’altro 85%; a livello mondiale abbiamo ricreato, anche se con percentuali leggermente diverse la nostra realtà dell’Ottocento dove a fronte di un 5% di borghesia privilegiata avevamo un 95% di proletariato senza diritti e senza reddito. Anche oggi quel 85% di esclusi hanno condizioni intollerabili che non è possibile ignorare.

In passato la loro povertà era in parte inevitabile ed alimentava il nostro benessere; oggi, forse mi illudo, ma non è più così perché la situazione è potenzialmente cambiata e la ricchezza dei paesi avanzati, soprattutto adeguando il meccanismo democratico, si autosostiene e non ha più bisogno di popolazioni sottomesse. Comunque la responsabilità storica permane e soprattutto la nostra tecnologia, che coinvolge l’intero mondo, ha rotto qualsiasi equilibrio economico sociale.

Abbiamo esportato la nostra tecnologia senza fornire le “istruzioni per l’uso” perché dovevano ancora essere elaborate e abbiamo travolto, cultura, usi, modelli organizzativi, scale sociali e famigliari senza che nulla potesse sostituirli. È diventato il regno della pura violenza, incompatibile con qualsiasi diritto e livello di dignità. La disoccupazione senza coperture è esplosa lasciando come principale alternativa entrare in qualche banda armata assoldata dai “signori della guerra” in uno scontro di rapina e sopraffazione senza fine che alimenta e si integra con le dittature esistenti.

I migranti sono solo la punta dell’iceberg di un problema irrisolvibile dotato di un’immensa capacità destabilizzante; i continui scontri che si protraggono senza vincitori, sono un aiuto a tutte le dittature e contengono un rischio immenso di degenerazione irreversibile. Nessuna soluzione attualmente è possibile perché un ipotetico piano d’aiuti avvantaggerebbe solo i dittatori, finanziando armi e follie. L’unica soluzione possibile rimane aggiornare il nostro impianto istituzionale democratico per fornire finalmente a noi e al restante mondo, da noi condizionato, le “istruzioni per l’uso” per sfruttare finalmente l’immensa tecnologia disponibile e trasformarla da causa della crisi in artefice del nuovo equilibrio economico/sociale, possibile e necessario a livello mondiale.

CAP. V – SUPERARE LO STALLO                                                                         

Logiche alternative. Per elaborare un’ipotesi di soluzione sarà utile sintetizzare gli elementi che determinano l’attuale crisi; nella II metà del ‘900 le democrazie risultavano vincenti perché garantivano diritti e benessere diffuso grazie all’integrazione fra pubblico e privato, dove il pubblico garantiva i diritti mentre il privato, grazie al controllo del mercato, offriva alla collettività un reale potere d’acquisto. La crescita della produzione della seconda metà del ‘900 ha fatto però crescere anche molti prodotti non controllabili dal mercato e quindi non compatibili con la gestione privata. Progressivamente questa parte di produzione è diventata prevalente e pari a un 70% del totale, coinvolgendo i principali settori strategici.

La mano pubblica ha cercato di coprire il vuoto organizzativo, gestendo direttamente questa parte di produzione, ma nel suo impianto istituzione non esistevano gli strumenti necessari a gestire l’attività economica; poteva infatti controllare i comportamenti dei soggetti coinvolti ma non gli obbiettivi raggiunti e la globale strategia produttiva. Così la mano pubblica ha gestito in maniera più o meno diretta, una parte predominante della produzione, circa il 70% del totale, senza disporre degli strumenti necessari per valutare obbiettivi e strategie da perseguire, né effettuare controlli reali sui risultati raggiunti; si è così mossa senza vincoli in un totale arbitrio che distruggeva risorse e conoscenze, penalizzando la democrazia.

È quindi necessario dotare la collettività, anche per questa parte di produzione, di uno strumento istituzionale che le permetta di imporre le proprie necessità economiche, garantendo il potere d’acquisto e questa funzione non può essere svolta dalle elezioni, pensate per garantire i diritti. Già all’inizio del ‘900 i rivoluzionari russi avevano capito i limiti produttivi ed equitativi del nostro impianto istituzionale ed avevano ipotizzato una diversa struttura organizzativa ottenuta attraverso i Soviet. Questo strumento realizzava una piramide gerarchica/conoscitiva che partendo dall’autogestione produttiva delle “masse” operaie e contadine si agglomerava, livello per livello, e costituiva la struttura pubblica.   

Sembrava, nell’ottica marxista, la soluzione di tutti i problemi: si eleminava lo sfruttamento del “padrone” e si dava integralmente al proletariato la gestione politico/economica; difficile resistere al fascino di questa soluzione. È stato necessario un secolo per capire che l’ipotesi prendeva in considerazione, secondo la logica marxista, solo il momento produttivo non l’intero ciclo e trascurava quindi l’efficienza produttiva e l’utilizzo del prodotto; il proletario/operaio trasformato da proletario a produttore veniva coinvolto in un nuovo ruolo dove le sue necessità erano in contrasto con quelle prioritarie della collettività/utente che avrebbe dovuto servire. Solo una feroce dittatura ha permesso di superare questa contradizione per garantire la produzione.

Non è quindi possibile utilizzare le aziende produttive come nucleo di base della nuova organizzazione perché gli interessi dei suoi lavoratori, in quanto produttori sono in conflitto con quelli prioritari della collettività/utente. Questo conflitto potrebbe essere superato solo se la produzione non fosse conto terzi, come attualmente,ma conto proprio in modo che produttore e consumatore coincidano e abbiano lo stesso obbiettivo di massimizzare i risultati. In quest’ottica negli anni ’80 avevo costituito una Comune agricola in provincia di Spezia per capire la possibile autogestione democratica di una produzione in contro proprio. La cosa teoricamente è realizzabile ma poco generalizzabile ed è difficile sfruttare la libertà e la fantasia creativa del singolo.

Domanda collettiva. Scartando le organizzazioni aziendali come nucleo di base di un’organizzazione alternativa, le altre possibili ipotesi si sono rilevate semplici palliativi non idonei a superare l’incubo dei Soviet. Il problema pareva irrisolvibile ma per smettere di essere tale è stato invece sufficiente superare un inconscio, ma radicato, vincolo mentale. Quando parliamo di produzione facciamo infatti sempre riferimento al meccanismo produttivo, perché rappresenta sia la parte organizzata, che lo strumento che gestisce la produzione.

In verità, in una lettura più corretta, la produzione è solo lo strumento utilizzato per soddisfare le necessità della collettività/utente ed è ad esse subordinata; quando, per le ragioni viste, la domanda del singolo soggetto della collettività/utente, non è in grado di condizionare il produttore non è necessario modificare la logica produttiva, ma è sufficiente agglomerare e gestire la domanda collettiva di tutti i soggetti che utilizzano quelli specifici prodotti. Le attività prese in esame che non sono condizionabili dal singolo utente, cioè della sua domanda individuale, possono invece correttamente essere controllate organizzando la domanda collettiva di tutti i soggetti interessati alla disponibilità dello specifico prodotto.

Il campo è più ampio di quello che potrebbe sembrare perché coinvolge anche le attività che utilizzano formalmente una domanda individuale che però è finta perché non permette scelta e selezione del produttore; l’equivoco di usare spesso una finta domanda individuale legittima una breve analisi degli elementi in gioco; vediamo i singoli settori.

Settori sociali, quali sanità ed istruzione; se l’utente paga il servizio fa effettivamente una scelta basata sull’efficienza del produttore, se viceversa gli viene fornito gratuitamente la sua scelta si riduce drasticamente perché o accetta il servizio com’è o ne fa a meno.

Servizi al territorio, quali trasporti urbani, rifiuti, infrastrutture e altri servizi; l’utilizzo è obbligato, con alternative inesistenti, e il bilancio dell’azienda produttrice non deriva dall’ottimizzazione produttiva, ma dal livello dei prezzi di erogazione che sono stabiliti non dall’ottimizzazione produttiva imposta dalla concorrenza, ma dall’Autorità e quindi poco significativi come indice di efficienza.

Vincoli temporali e dimensionali, quali riscaldamento globale, migranti, scontri geopolitici (Ucraina), vivibilità urbana e molti altri; in questo caso non esiste neppure una finta domanda individuale, perché la collettività non dispone neppure dello strumento per esprimere le sue necessità salvo le varie manifestazioni che però, come il mi piace sono l’espressione dell’impotenza.

Tutti questi settori sono quindi gestiti dalla mano pubblica in forma dittatoriale perché la collettività non dispone del potere di richiederli ed imporli; vengono svolti senza alcun controllo reale, con lo stesso soggetto che svolge contemporaneamente il ruolo di produttore e portavoce della collettività/utente cioè controllato e controllore.

Caratteristica della domanda collettiva. Di conseguenza il 70% della produzione, privo di domanda individuale, manca attualmente degli strumenti che permettano alla collettività/utente di esprimere e imporre le proprie necessità per garantire l’ottimizzazione produttiva. La domanda ugualmente esiste, ma deve essere esercitata non dal singolo utente ma dall’insieme dei soggetti interessati allo specifico prodotto; domanda collettiva quindi e non più domanda individuale. Esaminiamo caratteristiche e vincoli della domanda collettiva.

La prima caratteristica costituisce già un notevole problema. Per i prodotti gestiti dal mercato attraverso la domanda individuale il singolo membro della collettività manifesta la sua richiesta e dispone della conoscenza per effettuare la scelta perché riguarda direttamente lui e si riferisce a prodotti facili da valutare; per la domanda collettiva invece vengono coinvolti più soggetti che difficilmente possono fare una scelta se non sono inseriti in un’organizzazione in grado di garantire coordinamento, potere e conoscenza.

Inoltre la domanda individuale riguarda prevalentemente prodotti che già esistono, quali un elettrodomestico, per cui con facilità si può confrontare quanto scelto con altre possibili soluzioni esistenti; la scelta, molto facilitata, non richiede quindi l’esame del processo produttivo perché l’utente può limitarsi a valutare il risultato ottenuto a processo produttivo concluso.

Nella quasi totalità dei casi di domanda collettiva quale ad esempio un’infrastruttura, si tratta invece di prodotti da realizzare quindi non si tratta solo di valutare la loro utilità ma anche cosa produrre e l’organizzazione produttiva che lo realizza, perché è proprio la valutazione di caratteristiche, tempi, costi ed affidabilità del costruttore sono gli elementi determinanti per la scelta.

Entriamo così nel campo minato dell’economia, con interrelazioni complesse, dove la realtà quasi sempre è l’opposto di quanto appare. Quasi impossibile diventa effettuare una scelta corretta senza il supporto di conoscenza/potere che fornisce solo una struttura gerarchica/conoscitiva come quella dell’azienda, dove i singoli partecipanti sono coinvolti solo al livello di propria competenza e si interfacciano con gli altri livelli per la trasmissione della conoscenza e potere necessari a permette una unitaria e coerente sintesi decisionale.

La mancanza di questo strumento crea il meccanismo perverso che fa esplodere le contradizioni della mano pubblica: i decisori pubblici non dispongono della conoscenza necessaria è subiscono i produttori privati che, pur in conflitto d’interessi, dispongono della conoscenza prodotta dalla loro organizzazione produttiva. La mancanza di un controllo sui risultati, annulla l’importanza dell’obbiettivo produttivo, che è di difficile interpretazione, ottenibile dopo troppo tempo e quindi facilmente attribuibile al politico subentrato che è spesso di partito e ideologia opposta. Si preferisce quindi far crescere la spesa pubblica, ricuperando risorse da attribuire subito al territorio con un forte ritorno di occupazione e potere.

Logica organizzativa della domanda collettiva. È necessario che i decisori pubblici e la collettività possano disporre della conoscenza e potere necessari e di un controllo sui risultati in grado di attribuire ai singoli soggetti i risultati raggiunti e garantire l’ottimizzazione produttiva. Bisogna quindi partire da una logica diversa che inevitabilmente è quella dell’organizzazione aziendale, come si era capito quando si erano costituiti i Soviet.

Il nucleo sarà quindi una struttura gerarchico/amministrativa ancorata al territorio, divisa per livelli, con un meccanismo continuo, che permetta a ciascun livello organizzativo della collettività/utente di disporre degli strumenti necessari per conoscere le proprie necessità, valutarle, chiedere che vengano soddisfatte e controllare il risultato ottenuto. Questo meccanismo non assolve solo al ruolo di controllo della base rispetto al vertice ma anche quello, forse prioritario, di fornire ai singoli soggetti della collettività/utente la conoscenza necessaria per valutare ed effettuare le scelte di propria competenza.

Si può così ricreare un meccanismo analogo ma controfaccia di quello aziendale, che senza modificare l’organizzazione del produttore crei una struttura idonea a fronteggiarla per manifestare ed esprimere le necessità della specifica collettività/utente. È la situazione standard di quando un’azienda appalta ad un’altra determinati prodotti. Questo meccanismo virtuoso potrebbe garantire, anche per la domanda collettiva, analogo potere di imposizione e controllo esercitato per la domanda individuale, permettendo ottimizzazione produttiva, crescita, benessere collettivo, conoscenza e riattivando il circolo virtuoso delle democrazie della seconda parte del ‘900.

Se infatti ciascun gruppo della collettività/utente ha la dimensione necessaria per controllare la produzione che soddisfa le specifiche necessità, diventa possibile esprimerle, imporle e controllarne l’esecuzione, come fa il singolo per le necessità espresse dalla domanda individuale. Per l’asilo saranno le mamme del quartiere, per i trasporti urbani gli abitanti della città e così via via, risalendo i vari livelli, per arrivare a problemi sempre più generali. In tutti i casi i vari gruppi della collettività/utente, livello per livello devono poter disporre della conoscenza e del potere necessari per conoscere le specifiche necessità, valutarne priorità e compatibilità, imporle, controllare i risultati raggiunti ed ottenere l’ottimizzare produttiva       

IV potere: l’attività sopra vista dovrebbe essere delegata a una nuova struttura pubblica che chiamiamo IV potere. L’ipotesi di una complicata struttura pubblica delegata a gestire la domanda collettiva può certamente suscitare qualche perplessità ma non dimentichiamo che la borghesia per prendere e consolidare il proprio potere ha teorizzato attraverso l’Illuminismo francese la tripartizione dei poteri che rappresentava uno sconvolgimento generale del sistema istituzionale, ma proprio per questo ha modificato l’ordine mondiale.

Più semplice sarebbe stato allora prevedere un’Assemblea dei Baroni ma avrebbe cambiato ben poco e forse sarebbe stata anche meno realizzabile perché qualsiasi cambiamento, anche modesto, implica la perdita dei privilegi di qualcuno; quindi l’opposizione facilmente vince se il cambiamento, poco significativo, non ha la forza di imporsi.

Anche oggi il salto richiesto per costruire la società post borghese impone una discontinuità radicale ma è l’inevitabile prezzo da pagare per garantire il benessere diffuso e l’equità distributiva. Le funzioni oggi delegate alle Istituzioni non erano infatti previste dall’Illuminismo francese perché in conflitto con i privilegi della borghesia e quindi è necessario inserirle ora nell’impianto istituzionale lo strumento necessario a colmare questo vuoto istituzionale. La forza dirompente dei vantaggi possibili aiuterà il cambiamento, che forse è più realizzabile dei finti cambiamenti.

Dobbiamo quindi immaginare uno strumento istituzionale ancorato al territorio in grado di agglomerare e gestire una dimensione organizzativa adeguata al gruppo di utenti da servire. La struttura istituzionalizzata, ancorata al territorio sarà strutturata per livelli e ogni livello garantirà il soddisfacimento delle sue specifiche necessità e delegherà al livello superiore quelle che esulano dal suo campo territoriale. Sarà quindi un’organizzazione piramidale, realizzata sulla falsa riga di quella aziendale, attualmente unica organizzazione produttiva, con alcune fondamentali differenze.

Nell’azienda la conoscenza sale per livelli dalla base al vertice e poi ridiscende come potere dal vertice alla base (potere dall’alto). Nel nostro caso invece conoscenza e potere salgono entrambi, livello per livello, dalla base al vertice per ridiscendere alla base (potere democratico dal basso). Differenza che in parte si sta già attenuando perché anche le aziende puntano al decentramento del potere per aumentare la partecipazione produttiva che migliora la competitività.

Nel nostro caso il decentramento del potere potrà essere più spinto e ogni livello sceglierà sul campo, non per titoli ma per capacità e risultati, il proprio leader, nonché il rappresentante che opererà al livello superiore finalizzato a soddisfare le specifiche necessità di quel più ampio spazio territoriale. Abbiamo già detto che come prima approssimazione, salvo che l’esperienza identifichi divisioni diverse, possiamo ipotizzare come nucleo di partenza il Municipio, che si agglomera nel Comune, e via via nella Regione, nello Stato, nella Ue e forse alla fine nell’Onu o altro organo creato ad hoc.

Differenza situazione attuale. Oggi le elezioni corrispondono a una delega periodica diretta base/vertice e sono quindi idonee a regolare i diritti, ma per la gestione economica corrispondono a una delega in bianco senza controllo. Il IV potere prevede di superare questo problema realizzando un concreto inserimento nel territorio dove la base dell’organizzazione collettiva dialoga in modo diretto e continuo con la base della collettività/utente, rendendo interdipendenti fra le parti conoscenza e potere. Il flusso di entrambi salirà livello per livello fino al vertice per ridiscendere alla base realizzando l’ottimizzazione produttiva di ogni livello nonché una visione strategica globale.

Lo strumento ipotizzato dovrebbe permettere il vantaggio di fornire alla collettività/utente una risposta immediata alle proprie necessità, dotandola della conoscenza necessaria ad esprimere scelte coerenti e ragionate.  Grazie a questo meccanismo infatti, ciascuno viene coinvolto in scelte che, riguardando il proprio livello, si riferiscono a uomini di cui ha sperimentato la capacità e a cose che conosce e può giudicare. Inoltre tutti, come nella produzione conto proprio, hanno l’interesse comune di raggiungere i risultati previsti, in quanto i soggetti coinvolti al tempo stesso decidono e fruiscono della produzione. Hanno così anche la possibilità di valutare i risultati raggiunti e garantire l’ottimizzazione produttiva.

Si crea una fondamentale differenza con la situazione odierna dove chi esprime la domanda (necessità) da soddisfare è diverso da chi paga per quanto richiesto ed ha quindi poco interesse a ridurre tempi e costi d’attuazione; anzi i lavori in loco pagati da un soggetto esterno, lo Stato, rappresentano per chi li richiede una significativa fonte di reddito e potere; inevitabilmente prevale la convenienza ad aumentare tempi e prezzi. Questo meccanismo sembra studiato apposta per ottenere il massimo di irresponsabilità collettiva e sperpero di risorse; si potrebbe anzi pensare che non sia casuale ma di fatto, forse inconsciamente, serve ad accrescere i privilegi dei gestori del potere.

 Nell’ipotesi del IV Potere il gestore della domanda, che esprime la necessità, è lo stesso soggetto che paga i costi necessari al suo soddisfacimento e quindi cercherà di conoscere prima i relativi costi e contenerli al massimo. Ovviamente si potranno ipotizzare aiuti fra zone a diverso livello di sviluppo economico ma questo dovrà riguardare solo una percentuale dell’intero costo, come già avviene per le aziende; più del 50% dovrà sempre essere a carico dell’utilizzatore per non ricreare le attuali irresponsabilità collettive.

Aspetto culturale. L’aspetto principale del problema è comunque di tipo culturale; infatti attualmente una parte predominante della popolazione, pari al 70% del totale, per la generale parcellizzazione e la mancanza di controllo sui risultati, esegue un lavoro privo di ottimizzazione produttiva; subisce quindi una “non conoscenza” che mina alla base la democrazia perché fa degenerale qualsiasi dibattito e non rende possibile la partecipazione della collettività a un meccanismo produttivo complesso.

Tutti i cambiamenti radicali hanno comunque scontato un gap culturale rispetto alle nuove conoscenze necessarie; è successo nel ‘900 con il suffragio universale e analogamente avverrà per i IV potere. Quando però il suffragio universale ha permesso l’inizio della costruzione democratica, la partecipazione all’evoluzione virtuosa ha dato alla collettività le necessarie conoscenze e responsabilità. L’attuale inadeguatezza collettiva è frutto del vuoto organizzativo non dell’inadeguatezza della popolazione e potrà essere superata solo con un nuovo strumento democratico per garantire la reale partecipazione che crea conoscenza.

Il IV potere dovrebbe permettere questo inserimento/partecipazione, che è il principale contenuto dell’organizzazione aziendale e garantisce il know out aziendale, basato sulla selezione di uomini e funzioni, e in molti casi rappresenta il nucleo stesso del valore aziendale. Il IV Potere dovrebbe disporre di condizioni analoghe per selezionare uomini e funzioni, nonché alimentare la conoscenza e diventare il centro d’eccellenza del meccanismo produttivo.

Il discorso è particolarmente importante oggi perché abbiamo visto che l’evoluzione tecnologica richiede nel ciclo produttivo sempre maggiore conoscenza e intelligenza ed accentua l’interdipendenza produzione/conoscenza in cui l’una deriva dall’altra e viceversa. Questo permette di far crescere quello che già oggi è il grande vantaggio delle democrazie, perché l’intelligenza necessita della libertà che non è compatibile con le dittature.   

Necessità del IV Potere e reddito di cittadinanza- L’utente cioè il gestore della domanda individuale, per effettuare l’acquisto, deve conoscere le risorse disponibili (reddito) e il costo del singolo bene o servizio richiesto; la disponibilità di questi due elementi, è necessaria per rendere la scelta reale e non un semplice mi piace privo di contenuto economico. Le stesse condizioni si devono poter ricreare per la domanda collettiva dal IV potere, cioè conoscere risorse disponibili e costi delle varie alternative.

Una buona organizzazione della domanda può risolvere con facilità il problema relativo a costi e tempi necessari a soddisfare le nostre necessità; la situazione è analoga a quella di un’azienda che, se ben organizzata, può stabilire, con accettabile approssimazione qualità, tempi e costi, per l’acquisto di beni e servizi, anche abbastanza complessi come la costruzione di una nave. La mano pubblica subisce normalmente tempi e costi decuplicati per qualsiasi appalto effettuato, ma non è casuale ed anzi evidenzia una pesante disfunzione, inevitabile conseguenza della mancanza di controllo reale da parte della collettività/utente.

Più complesso è stabilire di quali risorse possono disporre, all’interno del IV potere, i gestori della domanda collettiva. Una prima ipotesi potrebbe prevedere di prelevare una parte del gettito fiscale, ma richiederebbe complicati meccanismi di calcolo che farebbero la gioia della dittatura diffusa dei burocrati e toglierebbero qualsiasi certezza. Potremmo invece trattenere in loco una quota delle tasse della zona mettendole a di disposizione dei gestori della domanda collettiva; un po’ meglio ma complesso e discriminatorio fra zone ricche e povere.

La carica di novità della soluzione richiede un analogo salto di qualità nella logica organizzativa, per garantire semplicità e maggiore contenuto democratico; tale potrebbe essere l’utilizzo del reddito di cittadinanza, visto però anch’esso da un’angolazione innovativa. Non deve essere un sussidio alla povertà perché diventa fonte di truffa e lavoro per i burocrati, ma un reddito a cui tutti i cittadini hanno diritto. Contrariamente a quello che può apparire, questo non implicherebbe un aumento significativo di spesa perché con un sistema fiscale decente, punto irrinunciabile, sarebbe a carico della collettività solo quello relativo ai soggetti in difficoltà economica, mentre per gli altri sarebbe una semplice partita di giro che esce ed entra pagando le tasse. La semplificazione sarebbe immensa, per questo non piace ai furbetti e ai burocrati.

Potrebbe inoltre sostituire in buona parte la giungla assistenziale esistente, tanto cara ai burocrati; darebbe anche una vera garanzia economica – l’eliminazione della povertà – necessaria perché la nostra cultura giustamente non tollera che qualcuno muoia di fame o viva in un’inaccettabile indigenza; le garanzie sociali sono quindi necessarie ed è certo più economico realizzarle in una visione unica e generale, invece di sbriciolarle in mille casi specifici da gestire singolarmente.

Esse non rispondono solo a istanze morali ma anche a convenienze economiche perché, come ci insegnava Galbraith più di mezzo secolo fa, costa meno assistere gli esclusi che reprimere i disperati che non hanno nulla da perdere. Infine il salto qualitativo ipotizzato dovrebbe permettere un tale aumento delle risorse disponibili da rendere possibili situazioni oggi inimmaginabili, dove la copertura dei costi non sarà più il problema fondamentale.

È così possibile alimentare il territorio con una fonte di risorse rigidamente paritarie e fortemente democratica che strada facendo può aumentate per far crescere le coperture sociali. Parliamo infatti di una funzione economica inserita funzionalmente nella logica produttiva e gestita su base democratica, grazie a una reale partecipazione della collettività, che può scegliere cosa vuole ed ha la competenza e il potere per farlo. Tutte le condizioni sarebbero così soddisfate e può finalmente finire la delega in bianco per la gestione economica delle attuali elezioni, creando un incredibile spazio di crescita di libertà, risorse, conoscenza collettiva ed equità distributiva.

La nuova democrazia del IV potere. Finora abbiamo esaminato gli aspetti tecnici del nuovo strumento istituzionale, le difficoltà e i possibili vantaggi economici raggiungibili; l’istituzione del IV potere supera però questa dimensione tecnica e diventa uno strumento determinante per raggiunge il più alto livello democratico necessario e tagliare finalmente il cordone ombelicale che ancora ci vincola alla logica della “democrazia” borghese.

La “democrazia borghese” è nata per superare lo stato feudale e garantire i privilegi della borghesia, nuova classe meritocratica, che utilizzava il mercato come principale strumento economico; grazie ad esso era possibile selezionare sia la produzione sulla base di efficienza, innovazione e solidità accumulata, sia la distribuzione assegnando le risorse in base ai redditi di cui ciascuno disponeva. È uno strumento rigidamente meritocratico, consono alla logica borghese, che premia potere e efficienza, trascurando gli esclusi e l’equità distributiva.

Nel tempo si è cercato di mitigare questa rigida selezione; inizialmente concentrando l’attenzione sull’aspetto remunerativo, cioè la fissazione di contratti di lavoro, perché era un primo passo obbligato e rappresentava l’obbiettivo più facile da raggiungere. Solo successivamente si è affrontato l’aspetto distributivo cercando di sottrarre al mercato, per vincoli sociali, alcuni prodotti considerati irrinunciabili quale sanità, istruzione e alcuni altri. L’obbiettivo era meritevole, ma il risultato raggiunto è stato scarso proprio perché nell’attuale struttura istituzionale è in contrasto con la logica esistente. Comunque anche aggiustando il tiro, non è possibile per questa strada, rompere la logica rigidamente meritocratica e modificare significativamente la situazione generale.

Il IV potere dovrebbe poter superare questi condizionamenti, sottraendo, nel settore distributivo, alla logica meritocratica del mercato una fetta predominante dei prodotti offerti al singolo membro della collettività/utente. Questa fetta è stata oggi stimata nel 70% dell’intera produzione ma potrebbe ancora crescere perché diventerebbe possibile soddisfare tutte le necessità oggi non espresse in quanto la relativa domanda non ha gli strumenti per manifestarsi. La parte principale dei prodotti che determinano il nostro benessere non sarebbe quindi più determinata dal mercato meritocratico, ma dal IV potere nuovo strumento gestito democraticamente. Limitare invece la spinta meritocratica del mercato nel meccanismo produttivo sarebbe complesso e potrebbe produrre contro indicazioni anche sociali; farlo nel settore distributivo viene invece premiata la base della piramide sociale perché maggioritaria 

Il passaggio dalla società feudale a quella borghese è stato caratterizzato dalla riduzione dell’agricoltura, nucleo della società feudale, da quasi il 90% della produzione a meno del 20% (in Usa 3%); così il passaggio dalla società borghese alla nuova società, che ancora non sappiamo come chiamare, farà passare nella distribuzione delle risorse, il peso del mercato meritocratico da un 80% a un 30% forse 20% del totale. Cadono così i privilegi accumulati.  

Il passaggio, in una visione un po’ utopistica, potrebbe essere ancora più significativo. Infatti da quando circa 2.500 anni fa i Greci hanno messo l’uomo al centro della nostra società iniziando a costruire la civiltà occidentale, la storia è stata caratterizzata da due forze contrapposte in continuo conflitto. Da una parte l’istanza morale che chiedeva la valorizzazione dell’uomo, il riconoscimento dei diritti, l’equità distributiva e la democrazia, dall’altro il potere economico che faceva prevalere la forza con il predominio dei forti sui deboli. L’indiscusso vantaggio dell’utilizzo della forza ha reso quasi sempre vincente la seconda, pur meno nobile, istanza.

L’ottimismo della volontà potrebbe permetterci di ipotizzare meno utopistica l’inversione di tendenza; se l’elemento portante della capacità produttiva e della potenziale forza, sarà l’intelligenza diffusa, frutto della libertà, diventerebbero vincenti la valorizzazione dell’uomo, il suo sviluppo, la conoscenza, i diritti, l’equità. Tutti elementi che sono incompatibili con l’imposizione del potere dall’alto delle dittature, e possono portare al prevalere della democrazia e a una nuova forma di rapporti fra gli uomini e i popoli.

Possibile futuro impianto istituzionale: parliamo di seguito di ipotesi basate sulla fantasia creativa, ma che possono facilitare la comprensione di un possibile assetto futuro del sistema economico/sociale; possiamo immaginare

  • il Parlamento stabilisce i diritti sia civili che economici dei membri della collettività: lo scopo per cui è stato pensato.
  • il Governo, come braccio operativo, è incaricato di farli rispettare; fondamentalmente quindi rispetto della legge, e gestione della forza cioè ordine pubblico e difesa (spero non guerra); anche questa è la funzione che ha sempre assolto e per cui era stato pensato.
  • IV Potere per gestire la domanda collettiva che garantirà il controllo della collettività/utente anche su tutte le attività a domanda collettiva e non individuale, attualmente non controllabili dal mercato.
  • La Magistratura dirime le controversie fra tutte le parti in causa e i diversi poteri, subendo però un controllo sui risultati da adeguare alla nuova logica
  • L’attività produttiva sarà privata con regole e vigilanza pubblica e un rigido controllo dei risultati effettuato dal mercato. Il soggetto della domanda individuale attualmente è libero di prodursi i beni che gli interessano; analoga libertà avranno i responsabili della domanda collettiva.

Potrà funzionare? Difficile dirlo a priori, sembrerebbe di sì, anche se dovrà essere messo a punto strada facendo utilizzando l’esperienza e gli errori fatti. Possono comunque tranquillizzarci due elementi: primo – nessuno finora ha identificato una diversa soluzione potenzialmente migliore, direi anzi che il problema è stato in parte ignorato; secondo – una situazione peggiore dell’attuale è difficile da immaginare per cui qualsiasi piccolo miglioramento sarebbe comunque un successo; centrare l’obbiettivo significherebbe ottenere un miglioramento finora inimmaginabile. Vale la pena di provare!

Strategia realizzativa e conclusioni provvisorie. Non pensiamo di aver trovato la formula magica che apre un futuro radioso, oggi inimmaginabile, perché la realtà è sempre più complessa e condizionata da variabili non considerate che modificano la situazione, imponendo continui adeguamenti. Siamo però sicuri che abbiamo incominciato a muoverci nell’unica direzione possibile per andare oltre ai discorsi correnti che si focalizzano sui comportamenti d funzionari e politici senza capire che la loro inadeguatezza non è la causa ma la conseguenza della crisi. La strada quindi è obbligata e forte è l’urgenza perché l’attuale struttura sta degenerando e a breve potrà essere in discussione la sopravvivenza stessa della democrazia, dell’equilibrio ecologico e di tutti i valori che caratterizzano la nostra civiltà.

Il momento storico ricorda gli analoghi anni ’20 del ‘900 ed è necessario intervenire per evitare che la situazione degeneri come negli anni ’20 – ’40 del secolo scorso con dittature e guerra. Le dittature e la guerra degli anni ’20 – ’40 del ‘900 sono costate lacrime e sangue, però alla lunga l’equilibrio è stato ritrovato. L’attuale potenza delle armi non può far sperare che possa esistere un “dopo” al conflitto. Einstein diceva: ”non so con quali armi si combatterà la prossima guerra mondiale ma so che quella successiva userà la clava”.

Si impone quindi una “discontinuità radicale”, che non possiamo chiamare rivoluzione perché non siamo in presenza della maggioranza che abbatte gli inaccettabili privilegi di una minoranza privilegiata, ma al contrario della necessità di rimuovere un’ampia maggioranza che fruisce di ingiustificati privilegi, singolarmente piccoli ma tali da impedire alla struttura pubblica di assolvere al proprio ruolo, rompendo l’equilibrio generale.

Si blocca la catena virtuosa dell’ottimizzazione produttiva e si impedisce la crescita di risorse, sviluppo, uguaglianza e benessere diffuso. Si riduce il tenore di vita dell’intera collettività, compreso degli stessi privilegiati perché nella veste di utenti subiscono danni maggiori dei privilegi ottenuti. Il cambiamento potrebbe quindi essere indolore e verificarsi nel punto in cui la crisi è più penalizzante; forse in Italia, il paese più arretrato delle democrazie avanzate e originare a Genova, la città che maggiormente soffre dell’incapacità pubblica.

Queste cose le ho ripetute troppe volte, anche se ogni volta ho cercato di meglio evidenziare la differenza tra il mondo possibile e i vincoli odierni; non so per quanto potremo ancora ripeterle perché siamo arrivati a un bivio che impone un diverso passo. Le pessimistiche previsioni fatte in questi anni si sono in buona parte confermate e la realtà purtroppo è stata peggiore del previsto. Non posseggo certo la verità ma sono convinto che lo studio che porto avanti da più di 10 anni è arrivato a un livello sufficiente per capire che la strada imboccata è attendibile e può portare a delle reali soluzioni.

Diventa quindi urgente iniziare un dibattito che coinvolga più soggetti e possa approfondire, mettere a punto l’argomento e renderlo conosciuto e divulgabile. Sappiamo che sono le necessità della collettività che determinano i cambiamenti nella realtà politico/sociale, non le elaborazioni teoriche; però queste possono servire, e spesso sono necessarie, per indicare alle forze evolutive una direzione possibile, idonea a raggiungere l’obbiettivo sperato. È stata la rivoluzione francese che ha travolto il potere feudale, però la tripartizione dei poteri dell’Illuminismo francese ha fornito la logica per costruire lo strumento tecnico necessario alla crescita ed al consolidamento della vincente società borghese.

Oggi la crisi è forte, compromette gli equilibri, internazionali, sociali, economici, culturali; l’istanza di cambiamento è dirompente e alimenta i movimenti contestativi sia in Italia che negli altri Paesi. Basta pensare in Francia a Macron e ai Gilet jaunes, in Italia ai 5 Stelle, i vari populisti, le Sardine ed altri. Tutti i movimenti hanno un grande successo iniziale ma si rilevano ben presto fuochi di paglia perché si limitano a ipotizzare uomini virtuosi che sostituiscano gli attuali responsabili; manca qualsiasi ipotesi di gestione alternativa della struttura pubblica. Inevitabilmente si evidenzia che la sostituzione degli uomini nulla cambia, anzi spesso la situazione peggiora e la prassi risulta più irresponsabile di quella dei predecessori confermando come l’inadeguatezza dei soggetti rappresenta solo il modo di manifestarsi della crisi.

Dotare questa continua protesta di un’analisi strutturale, come quella che può uscire da un serio dibattito, evidenziare i meccanismi condizionanti che bloccano l’impianto istituzionale e le modifiche possibili, potrebbe trasformare il fuoco di paglia in un incendio che travolge il presente ed apre al futuro. Certamente non facile né breve, però forse possibile e, come diceva Mao, anche la lunga marcia inizia con un piccolo passo.

Mi rivolgo quindi a chi considera che quanto scritto contenga qualcosa d’interessante e non vuole aspettare, come lo struzzo, che il peggio succeda, e gli chiedo di fare un passo avanti. Con l’e-mail, in parte già conosciuta (bruno.musso@grendi.it) è facile un contatto circolare (potenza dell’elettronica!), che permetta di vedere se esistono le condizioni di questo secondo passo. Nessuno si aspetti successi immediati, l’obbiettivo è immenso perché riguarda il mondo che deve evitare il disastro annunciato; la posta in gioco giustifica però l’oggettivo rischio di insuccesso.

Io sono a disposizione di tutti e, data la mia veneranda età, fino a quando le sinapsi si collegheranno posso continuare a fornire il mio supporto logico, ma per la parte organizzativa servono dei volontari; magari giovani che in un domani, lontano o vicino non so, potrebbero diventare responsabili di una qualche nuova struttura pubblica finalmente funzionante. Non appartengo all’attuale mondo politico e quindi non faccio promesse, né fornisco garanzie di successo, dico solo: “vale la spesa di andarci a vedere”. Aspetto di vedere chi si fa avanti per capire se siamo in grado di fare quel fatidico “primo piccolo passo”

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